Rockol30

La band californiana racconta le proprie origini armene, la propria musica, le proprie idee...

I System of A Down sono recentemente passati dall’Italia per presentare dal vivo il loro ultimo album intitolato “Toxicity” (vedi news). Nel disco la band –al momento una delle più quotate nell’ambito del rock duro- si scaglia ancora una volta contro i problemi e le ingiustizie che accadono nel mondo al giorno d’oggi. Daron Malakian (voce e chitarra), Serj Tankian (voce e tastiere), Shavo Odadjian (basso) e John Dolmayan (batteria) si sono chiusi in studio l’anno scorso per registrare 33 brani, dei quali solo quattordici sono stati scelti per il nuovo disco. Rockol ha colto l’occasione per parlare con i con Serj (SE), Shavo (SH) e John (J), facendosi raccontare le origini della band, influenze e idee.

I SOAD sono band californiani, ma di origini armene. Pensate che la cultura mediorientale abbia influenzato la vostra musica?
(SH) Le nostre radici armene emergono spontaneamente e in modo del tutto naturale nella nostra musica. Nel primo album questa influenza si faceva sentire maggiormente; quando abbiamo realizzato la canzone “Know” ci siamo resi conto, riascoltandoci, che il sound era quello del nostro paese. La nostra cultura veniva fuori perché noi siamo armeni e condividiamo un’origine culturale che tiene uniti i membri del gruppo. Queste radici comuni, inoltre, ci permettono di raggiungere un alto grado di comprensione tra di noi, quasi come fossimo fratelli. Abbiamo la stessa cultura, quindi la stessa mentalità , il medesimo senso del rispetto e della morale. In America questo è difficile: lì coesistono diverse nazionalità, è quasi impossibile trovarsi in armonia con tutti. Noi invece siamo praticamente gli stessi, dentro.

Potete fare degli esempi concreti riguardo all’influenza della cultura armena nei testi delle vostre canzoni e nel vostro sound?
(SH) Per quanto riguarda i testi, abbiamo parlato del genocidio armeno del 1915 avvenuto per mano dei turchi solo in un brano del primo album; non lo tireremo in ballo nuovamente perché non vogliamo essere ripetitivi. Il sound etnico, invece, lo abbiamo ottenuto soprattutto grazie ad Arto Tuncboyaciyan, un musicista armeno che ha lavorato con numerosi artisti blues e jazz. In tutte le canzoni di “Toxicity” abbiamo utilizzato diversi strumenti e abbiamo pensato molto a come realizzare i brani nel migliore dei modi. Ci siamo fatti aiutare da Arto che ha lavorato con noi in studio tutti i giorni cercando di trovare il nostro sound che si sviluppava sempre di più con il passare del tempo. Lui ha suonato di tutto utilizzando bottiglie d’acqua e addirittura anche il proprio corpo per ottenere dei suoni che, sì, potremmo definire “etnici”.

Nel vostro ultimo album “Toxicity“ c’è una canzone curiosa dedicata al fenomeno delle groupie. Cosa ne pensate veramente?
(J) Il fenomeno delle groupie è una cosa che non riusciamo proprio a capire e che troviamo del tutto ridicola. Non possiamo far altro che ridere di fronte a delle ragazze che si intrufolano nel backstage e fanno di tutto per avere incontri “particolari” i membri delle band… sì, insomma, sesso. E alcune di esse sono anche fidanzate, ma ai loro ragazzi sembra quasi non importare nulla: è davvero stupido.

Spesso la gente tende a classificarvi come “band politica” per i temi che trattate nelle vostre canzoni. Siete d’accordo con questa definizione?
(SH) Nel nostro album precedente abbiamo scritto delle canzoni a sfondo politico e sociale e quindi la gente ha pensato di classificarci come “band politica”. In realtà noi non siamo una band politica perché non facciamo altro che dire quello che ci passa per la mente, quello che sentiamo e che vogliamo esprimere. Così parliamo di sesso, fame, rabbia, ragazze, guerra e tristezza. Nell’album, ad esempio, c’è una canzone che si intitola “Jet Pilot” che potrei definire un pezzo frutto di una visone, scritto sporadicamente, quando sentivo di avere qualcosa da dire. Quel brano non ha avuto un senso fino a quando non è stato completato.
(J) Quando siamo usciti noi, i Rage Against the Machine si stavano sciogliendo e la gente, soprattutto la stampa, ci ha visto come i loro successori. E così ci hanno definito una band politica. Ma non è così. Sì, è vero, ogni tanto parliamo anche di politica, ma come fanno tante altre persone, perché fa parte della nostra vita. Spesso ci scambiamo delle opinioni sui partiti, come tutti, e talvolta siamo anche in disaccordo. Non è una forma di discussione quindi, ma solo quello che pensiamo.
(SH) Daron ha scritto molti testi in questo nuovo album. E se si prendono le canzoni di Daron e le si confrontano con quelle di Serj, si può notare che sono molto diverse tra di loro. Daron dice una cosa ed è quella, la scrittura di Serj invece si estende su più livelli.
(J) Daron va diritto al punto, non ci sono doppi significati nei suoi testi.

Esistono dei ruoli ben specifici nel vostro gruppo?
(SH) La nostra band si comporta come un vero e proprio team: io non sono solo il bassista, lui non è solo il batterista, Serj non è solo il cantante come Daron non è solo il chitarrista. Tutti abbiamo qualcosa in comune che ci tiene legati insieme. Un’altra cosa che ci distingue dalle altre band è che noi ci prendiamo cura personalmente di ogni cosa che ruota attorno al nostro gruppo. E lo facciamo tutti insieme: non c’è nessuno che comanda, come invece succede spesso in altre band dove magari uno solo si sente sotto le luci della ribalta…
(J) Noi prendiamo sempre insieme le decisioni e non amiamo che qualcuno lo faccia per noi. E così facciamo le nostre scelte: dalla linea di T-Shirt alla copertina del disco. La nostra casa discografica sta molto attenta ad evitare che ci sia qualcosa che noi disapproviamo. Abbiamo un rapporto di collaborazione con la nostra etichetta; a volte se non stai attento perdi il controllo della tua situazione e della tua musica. E’ importante assicurarsi sempre che ti stiano rappresentando come tu vuoi essere rappresentato.

Qualche fa gli Slipknot suonarono a Milano e quando vennero a sapere che per il vostro concerto era stato venduto un numero maggiore di biglietti non hanno nascosto un certo fastidio. Cosa ne pensate voi della competizione tra band?
(SH) Ci rido sopra: noi non sentiamo nessun tipo di competizione con le altre band. Mi viene da ridere se vengo a sapere che qualcuno sta cercando di competere con noi. Hanno provato a competere con noi in America, ma noi abbiamo risposto “Voi fate quello che dovete fare e noi facciamo quello che dobbiamo fare, poi si vedrà cosa succede”. Non si deve competere, bisogna competere solo con se stessi.
(J) A noi non interessa la quantità dei biglietti che vendiamo ma la nostra musica per la quale vogliamo il rispetto. Abbiamo venduto molti album e molti biglietti. Per noi la competizione è qualcosa di ridicolo e qualcosa che si manifesta ora, al momento: non credo che a qualcuno interessi quanti biglietti avevano venduto i Beatles quando erano in tour 30 anni fa. Quello che è rimasto è la loro musica.
(SH) E poi non ha importanza davanti a quanta gente suoni: bisogna dare il meglio anche di fronte ad un audience limitato, non solo davanti a 10.000 persone.
(J) Io ho suonato addirittura davanti a solo due persone, una delle quali era la mia ragazza!Quindi poi tutto era meglio, no?E poi insomma, non vedo proprio il motivo di essere competitivi: c’è spazio per molta musica e per vari generi. C’è posto per i Backstreet Boys e per i System of A Down per i Crazy Town, non abbiamo motivo di giudicare gli altri. Questo è categorico!

Siete mai andati nella vostra terra d’origine, lArmenia?
(SE) Ci sono andato l’anno scorso. Lì la gente è meravigliosa e come del resto lo è anche il paesaggio, ma il governo è corrotto.

Se vi dovessero invitare a suonare in Turchia, accettereste?
(SH) Ci è già successo. Ci tengo a precisare che noi non odiamo né la Turchia né il suo popolo. Noi odiamo il governo perché mente e ancora oggi non riconosce il genocidio del 1915. Noi volevamo che lo spettacolo fosse un pretesto perché la gente sapesse. Per il concerto avevamo richiesto la sicurezza, ma loro non ce la garantivano. Sapevamo che se avessimo cantato sul palco la nostra canzone che tratta del genocidio avremmo rischiato di finire in qualche prigione turca. E questo è inammissibile!

(Laura Ghellere)

Altre interviste

Luca Madonia - Ritorna l'ex-Denovo, che racconta il nuovo disco 'La consuetudine'... (14/03/2002)

Daniele Silvestri - Sanremo, il nuovo disco, la nuova etichetta: Daniele si racconta a Rockol... (12/03/2002)

John Paul Jones - Una leggenda del rock racconta il suo nuovo disco... (08/03/2002)

Jewel - Dall’Alaska a Milano. Ma solo per presentare il nuovo album... (06/03/2002)

Sarah Jane Morris - La più black delle cantanti inglesi si racconta... (04/03/2002)

© 2025 Riproduzione riservata. Rockol.com S.r.l.
Policy uso immagini

Rockol

  • Utilizza solo immagini e fotografie rese disponibili a fini promozionali (“for press use”) da case discografiche, agenti di artisti e uffici stampa.
  • Usa le immagini per finalità di critica ed esercizio del diritto di cronaca, in modalità degradata conforme alle prescrizioni della legge sul diritto d'autore, utilizzate ad esclusivo corredo dei propri contenuti informativi.
  • Accetta solo fotografie non esclusive, destinate a utilizzo su testate e, in generale, quelle libere da diritti.
  • Pubblica immagini fotografiche dal vivo concesse in utilizzo da fotografi dei quali viene riportato il copyright.
  • È disponibile a corrispondere all'avente diritto un equo compenso in caso di pubblicazione di fotografie il cui autore sia, all'atto della pubblicazione, ignoto.

Segnalazioni

Vogliate segnalarci immediatamente la eventuali presenza di immagini non rientranti nelle fattispecie di cui sopra, per una nostra rapida valutazione e, ove confermato l’improprio utilizzo, per una immediata rimozione.