“La pertinenza sta nell’essere onesto con quello che si fa. La cosa per me più importante è mantenere la mia autenticità”: comincia così il comunicato stampa del nuovo disco di Jewel, “This way”, presentato alla stampa a Milano nei giorni scorsi, con tanto di buffet: brioches, succhi di frutta e quant’altro. Per chi, anche dalla situazione lavorativa più comune, vuole scroccare il meglio. Ma Jewel di tutto quel ben di Dio non ne vuole proprio sapere. A lei basta una tisana, che sorseggia dalla boccuccia a forma di cuoricino tra una risposta e l’altra. Bionda, timida ed aggressiva al tempo stesso, croci e cuori (di diamanti) al collo, la ragazza dell’Alaska dà l’impressione, spesso e volentieri, di voler dimostrare di essere una donna tosta, capace di affrontare le variopinte sfide che una felice esistenza come la sua può offrire. Perché alla fine l’arte non è molto diversa dalla vita, o almeno questo pontificava qualcuno, tempo addietro, per sconvolgere il proprio, adorante, pubblico. Jewel sembra pensarla allo stesso modo, trasformandosi in una giovane donna assetata di esperienze, “tutte, purché possano arricchire lo spirito”. E allora via la musica, dentro la poesia, o viceversa, via lo stress “del disco dopo” e dentro uno scattante balzo sul primo palcoscenico cinematografico a disposizione. Ma Jewel è così. La vedi che se potesse farlo davvero, non starebbe ferma neppure sulla sedia dove, incredibilmente, giace immobile come una piccola Biancaneve da giardino. E, senza troppe chiacchiere, si alzerebbe con grinta per fuggire dall’ennesimo, noioso, “tour promozionale”. Correndo a gambe levate verso la luminosa insegna verde e bianca che, appesa al muro, fa il verso al suo disco. Recitando, molto meno poeticamente, un freddo “This way”… Ad un primo ascolto sembra che nel tuo nuovo disco le ballate ti siano particolarmente riuscite, specialmente “Break me” e “Serve the ego”. Come sono nate?
Oh, sono davvero pessima a descrivere le mie canzoni! Ho scritto “Break me” mentre ero in taxi, durante una pausa, due anni fa. Scrivere canzoni d’amore è difficile perché è difficile essere originali. E dire qualcosa che riguardi l’amore in un modo diverso, che non sia un cliché, è arduo. Trovo che le canzoni d’amore siano la sfida più grande per un cantautore. Questo brano parla di quando sei innamorato, di quando diventi vulnerabile, a tal punto da poter essere distrutto. “Serve the ego” invece è una melodia molto divertente che ho scritto velocemente. Mi piace perché all’inizio ti fa credere che si parli di una donna al servizio di un uomo, mentre invece è solo una donna che serve se stessa. E’ un appunto contro una certa cultura statunitense.
La stampa americana si è occupata di te più come scrittrice che come cantante, tanto che il tuo libro “A night without armor” ha venduto più di Walt Whitman. Che effetto ti fa?
Oh, è un crimine contro la poesia!
Ti consideri in qualche modo l’erede della poesia americana?
Non so. Credo che la poesia sia molto importante per la società. Quando leggi un libro di storia impari dove e quando è stata combattuta una battaglia. Quando leggi una poesia o una lettera scritta da un soldato ti accorgi di cosa sentiva quella persona nel cuore. Il compito della poesia è di mostrare il cuore della società, non soltanto la sua storia. Mi gettava nello sconforto vedere quanto impopolare fosse nel mio paese. Quando mi sono presentata alla casa editrice dicendo che volevo scrivere un libro di poesie mi hanno detto di no. Mi hanno detto che non mi avrebbero mai dato i soldi, perché un libro del genere non avrebbe funzionato. Credo che l’intero paese sia rimasto scioccato che un libro di poesie vendesse. Per quanto mi riguarda la cosa più importante è stata che i ragazzi, dopo aver letto il mio libro, abbiano cominciato una sorta di movimento di persone interessate alla scrittura di poesie. E’ positivo, che poi diventino dei veri poeti oppure no.
C’è qualche altra raccolta di poesie che hai intenzione di scrivere?
Ho smesso di comporre poesie e iniziato con la prosa. Ho scritto delle storie in prosa. Credo che comincerò a comporre anche delle nuove canzoni. E’ divertente perché mi sento come un contadino della creatività, perché mi piace cambiare molto spesso. Se non cambi la coltura di un campo il terreno si inaridisce. Per me è lo stesso. Se abbandono la musica e scrivo poesie, le mie canzoni ne godono, se abbandono la poesia per scrivere della prosa, le mie poesie ne traggono beneficio. E’ un po’ come per le stagioni. Ed io ho appena cominciato a spostarmi verso la stagione della prosa. Mi piacerebbe pubblicare un libro di storie d’amore in prosa.
In “The new Wild West” tracci un profilo molto pessimista degli Stati Uniti. A cosa pensavi esattamente quando l’hai composta?
E’ come quando cerchi di prevedere le condizioni meteorologiche e ti accorgi di certe situazioni che pian piano si vanno a sviluppare. E’ una raccolta di impressioni sull’America. Sul fatto di vedere certe correnti di pensiero svilupparsi molto velocemente per poi arrivare a dominare completamente il paese. E a trascinarsi addosso tutte le reazioni esterne. In tutta la sua storia l’America ha sempre pensato che bastasse conquistare un territorio per renderlo migliore, e civilizzarlo. Credo molto onestamente che nella storia abbiamo reso meno civili molti posti, piuttosto che il contrario. Oggi però non ci sono più nuove conquiste da fare, non c’è il vecchio West da esplorare. Un tempo i pionieri avevano la terra degli indiani da scoprire e colonizzare. Adesso di terra non ce n’è più, in tutto il mondo credo. Noi continuiamo a non essere civilizzati. Sono convinta che ad un certo punto dovremmo davvero chiederci come potremmo diventare civilizzati. Dopo l’11 di settembre questa è una domanda molto importante alla quale bisogna trovare una risposta. Il modo in cui l’America ha reagito a quei fatti dimostra pienamente quanto i “civilizzati” siano i “non civili”.
“Jesus loves you” invece è una critica alla chiesa e al fanatismo religioso. Non è una contraddizione il fatto che tu abbia cantato di fronte al Papa?
Sono sempre stata colpita da quanto io riesca a scrivere parole dure nelle mie canzoni. Forse perché sono bionda e carina e nessuno negli Stati Uniti sembra curarsene più di tanto… . Nessuno legge i miei testi eccetto i fan! La stampa americana di solito non mi fa mai domande su ciò che scrivo, e ogni volta sono sempre più sconvolta di questo. La scamperei anche se fossi un’assassina e questo mi piace! Non credo che rinuncerò mai alle mie opinioni. Per me il fanatismo può arrivare da moltissime parti. In quella canzone dico le cose come stanno, senza troppe sottigliezze. Non credo comunque che ci sia una facile soluzione alle domande che mi pongo. Non può mai essere “sì” o “no”, ci deve essere una terza soluzione. Perché il comportamento umano non è bianco, né nero. E’ una via di mezzo. La mia canzone parla della “terza opzione” nella risoluzione di un problema. Io comunque non prendo una posizione: preferisco descrivere una situazione.
Cosa ne pensi di tutte queste nuove leve della musica pop, belle e bionde, come Britney Spears e Shakira e del loro modo di porsi ai media?
Chiunque riesca a vivere di questo mestiere deve sicuramente lavorare molto. Nessuno può riuscire senza far fatica. Britney Spears lavorerà molto duramente per fare ciò che fa, così come Shakira o Jennifer Lopez. Non ho nulla contro di loro e non mi sento in competizione, perché prima di tutto io cerco soltanto di non deludere me stessa, facendo il meglio che posso a seconda dei miei interessi. L’entertainer nella nostra cultura è una figura molto considerata, qualcosa di cui non si può fare a meno. Se si osserva la storia della musica ci si rende conto che si passa da Elvis Presley, un personaggio assolutamente controverso, a Frank Sinatra, che precedentemente era considerato il vero ribelle. Poi sono arrivati i Beatles e i Rolling Stones, e loro sono diventati i ribelli di turno. E poi c’è stato il movimento hippie e poi la disco music. Si passa dal pop leggero e spensierato alla musica impegnata e così, sempre. Credo sia giusto che esistano entrambe le cose.
A proposito di spensieratezza, l’esperienza cinematografica per te è stata soltanto un divertimento o credi che continuerai a lavorare in questo campo?
Mi piacerebbe fare un altro film, anche perché ho impiegato parecchi anni a trovare il film giusto. Ho avuto proposte dall’età di 18 anni e per molto tempo ho letto dei copioni, ma senza trovarne di davvero validi con bravi registi. Il film diretto da Ang Lee, “Cavalcando con il diavolo”, tra una cosa e l’altra sono riuscita a realizzarlo soltanto a 23 anni.
Sembri molto europea nel modo di porti e affrontare certi argomenti. Non hai mai pensato di trasferirti qui per conoscere altre realtà artistiche?
Fortunatamente viaggio parecchio e credo di passare parti più o meno uguali di tempo in tutte le regioni del mondo, inclusi gli Stati Uniti, dove vivo quando ho del tempo libero. Generalmente sono in Giappone, Australia, Europa o Canada. Credo sia un forte beneficio per me l’opportunità di vedere posti così diversi tra di loro e specialmente leggere libri di letteratura moderna stranieri, anche se tradotti. Penso che essere cresciuta in Alaska da genitori europei mi abbia messa di fronte a valori molto diversi rispetto a quelli di un normale americano. Scrivo molto di più quando sono in Europa e mi piace, questo. Così, se ad un certo punto della mia vita deciderò di venire qui a vivere, non ne sarei sorpresa. Per ora, comunque, non è in programma.
In “Do you want to play?” c’è un verso che menziona Randy Newman. Come mai hai deciso di inserire questo riferimento?
La canzone parla di un personaggio, una ragazza, molto molto “cool”. Una di quelle talmente “cool” da risultare addirittura più forte di ciò che è considerato alternativo. Una a cui piace solo la roba underground e vive in un posto molto figo e magari dice “no, a me non piace Bob Dylan, però mi piace Phil Ochs”. Volevo scegliere un artista della cultura pop che potesse piacere ad una ragazza del genere e così mi è uscito il nome di Randy Newman.
Il disco contiene delle canzoni molto differenti l’una dall’altra. Quanto questo eclettismo rispecchia il tuo vero carattere?
Non riesco ad essere diversa. Sono molto curiosa e tendo ad annoiarmi facilmente. Se lavoro ad una cosa per troppo tempo mi viene subito voglia di cambiare. La mia vitalità si sentirebbe persa, al contrario. Sono sempre cresciuta in mezzo alla cultura. Mio padre era per metà un cowboy e per metà poeta, mentre mia madre lavorava il vetro. Inoltre sono sempre stata circondata da moltissimi dischi, dalla musica folk ai Public Enemy. E’ naturale che la mia musica abbia tantissime influenze, anche se personalmente la trovo molto compatta.
Sei fidanzata con un campione di rodeo, Ty Murray, con il quale hai co-scritto un brano del nuovo disco, “Till we run out of the road”. Come ti sei trovata a comporre con un cowboy?
Lui adora la musica, specialmente quella impegnata di autori come i Replacements o Bruce Springsteen. E’ anche una persona molto diretta, che non si crogiola tra concetti estremamente contorti. Ha scritto questa canzone descrivendo le sensazioni che si provano quando sei in giro per partecipare ai rodeo. Però non voleva scrivere del sudore dei cavalli o di cose simili, cliché del mestiere. Voleva comporre una canzone che potesse essere universale, assimilabile anche da chi del rodeo non conosce nulla. E’ un istinto molto sofisticato che persino alcuni cantautori molto popolari non possiedono. Per queste ragioni è stato un partner molto buono. Naturalmente non lo aveva mai fatto prima, così gli ho dato un aiuto, proponendogli dieci opzioni dalle quali scegliere la tematica che più gli piaceva.
Farai un tour?
Sì, parteciperò a qualche festival qui in Europa, probabilmente il prossimo maggio. Però non so ancora nulla di preciso.
(Valeria Rusconi)