C’era una volta l’australian rock. Erano gli anni ’80: una band, attiva dagli inizi del decennio pubblicò un singolo “Under the milky way”, e un disco, “Starfish”. Si chiamavano Church e la loro miscela di melodia e psichedelia, chiaramente influenza dagli anni ’60 e da gruppi come i Byrds, fece il botto, diventando un successo internazionale.I Church non hanno mai smesso di suonare, da allora, ma non hanno mai ripetuto quel successo. I Church sono tornati con “After everything now this”, la loro miglior prova da lungo tempo a questa parte. Un disco che forse non aggiunge granché alla storia musicale della band, ma che ripropone la voce evocativa di Steve Kilbey e le melodie chitarristiche del suo alter-ego, Marty Wilson-Piper. Con quest’ultimo ripercorriamo la storia della band e della musica del continente oceanico.
"After everything now this" sembra una sorta di ritorno al suono con il quale i Church si sono fatti conoscere negli anni '80: grandi ballate dominate dalle chitarre e dalla voce evocativa…
In effetti gli ultimi tre dischi che abbiamo fatto, erano molto diversi. Con "Magicians among the spirits" e "Hologram of Baal" abbiamo fatto un passo indietro rispetto al nostro modo di suonare, mentre la nostra prova più recente, "Box of birds" era un disco di cover, per cui era inevitabile che suonasse diverso da un tradizionale disco dei Church.
"After everything now this" ha avuto una gestazione lunga e complessa: abbiamo iniziato a lavorarci tre anni fa, prima di "Box of birds", poi l'abbiamo portato avanti con diverse sessioni fatte tra la Svezia, dove abitavo un paio di anni fa, e l'Australia da dove abbiamo iniziato e quindi a New York. In America abbiamo fatto la post-produzione e il mixaggio. Forse per questo processo così lungo e meditato suona più 'stratificato' dei dischi precedenti, e sembra richiamare le nostre vecchie cose.
Alcune canzoni richiamano quasi inevitabilmente alla mente il vostro disco più conosciuto, "Starfish", che oltre dieci anni fa vi portò al successo con "Under the milky way".
Davvero? Non l'avevo mai visto in questi termini. Credo che "Starfish" sia un disco sopravvalutato, soprattutto in termini di suono. E' troppo pulito, con poche sorprese e con poco caos musicale, del genere che piace creare a noi in studio e nelle canzoni. Spero che quel disco non abbia avuto successo perché era così semplice, mi inquieterebbe davvero pensare fosse quello il motivo. Credo che il vero motivo sia la fortuna. Se pubblicassimo domani "Under the milky way" non credo avrebbe successo di nuovo.
Il disco successivo, "Gold afternoon fix", invece, era molto cupo, sembrava quasi rifiutare il successo che avevate ottenuto con "Starfish".
E' vero. Ma non fu un rifiuto del successo o un tentativo deliberato di ammazzare la nostra vena pop. Venne così cupo soprattutto perché Richard Ploog, il nostro batterista di allora, stava uscendo dal gruppo, così finimmo per inserire la batteria elettronica nei brani, cosa che non ci piacque affatto.
Oggi come allora, i Church sono contraddistinti soprattutto dal suono delle chitarre, che sembra diretto discendente del jingle-jangle degli anni '60, dalla Rickenbacker di Roger McGuinn…
In realtà non lavoriamo molto sulla post-produzione e sul suono delle chitarre. Tim Powles, il nostro produttore nonché batterista, ci ha imposto un nuovo metodo di lavoro, meno basato sulla nostra configurazione standard di amplificatori, delay e pedali. Fa tutto lui, ci propone lui le soluzioni. E, contrariamente a quello che si pensa, il nostro suono di chitarra è meno codificato: in questo disco uso raramente la Rickenbacker, uso molto la Fender Jazz Master e spesso suono il basso al posto di Steve. So che dicono che il mio stile dipende molto da quello dei Byrds, ma non è poi così vero. Sono andato a vedere Roger McGuinn dal vivo un paio di settimane fa e devo dire che, da un lato, è sicuramente un grande autore, ma dall'altro è un chitarrista assolutamente nella media, in quanto a tecnica.
Verso la metà degli anni ’80 il rock australiano sembrava sul punto di esplodere e diventare un fenomeno mondiale: voi, i Died Pretty, gli Hoodoo Gurus… Invece rimase un fenomeno di culto, a parte un paio di casi di grande successo. Cosa pensi ora di quella scena?
Beh, i Died Pretty mi sono sempre piaciuti, Ron Peano e Brett Myers sono due gran belle persone. Ma le uniche band che hanno avuto davvero successo fuori dall'Australia sono stati gli INXS, che erano decisamente pop, e i Midnight Oil, che però si limitarono solo ad un singolo. Gli Hoodoo Gurus erano più famosi di noi, almeno Australia,. Non credo che ci sia mai veramente stato un momento in cui il rock australiano ha rischiato di esplodere fuori dal continente. Potrei nominarti un sacco di band altrettanto brave, che sicuramente non hai mai sentito nominare… I Secret Secret, i Dorian Gray, I Lighthouse Keepers…
Da quel periodo ti sei comunque sganciato dall’Australia: hai vissuto in diversi posti e i Church non sono più una vera e propria band australiana…
Non vivo più la da più di quindici anni, ci torno solo periodicamente: ho vissuto prima a Londra, poi in Svezia, ora a New York. Credo che si faccia ancora della buona musica laggiù, di cui nessuno sente parlare fuori dai confini. Tutte le volte che ci vado cerco di compre dischi di band locali, ma forse non ci torno abbastanza…
Quali sono i prossimi progetti, tuoi e della band?
Continuerò a lavorare su progetti solisti, come ho sempre fatto. Ma ora i progetti immediati sono con i Church: andremo in tour e tra poco passeremo dall'Italia, ai primi di marzo. Nei concerti che abbiamo fatto prima di pubblicare “After everything now this” abbiamo suonato 8 canzoni su dieci e così faremo anche quando passeremo dalle vostre parti. Abbiamo deciso di suonare in modo non usuale, con chitarre acustiche attaccate da amplificatori elettriche. Suoneremo vecchie canzoni ma rifatte in modo nuovo: non ci piace essere nostalgici.
(Gianni Sibilla)