25 anni di carriera festeggiati con un album che è più un ritorno al passato che uno sguardo avanti al futuro. Il Pat Metheny Group, guidato dall’ultimo chitarrista in grado di esercitare una profonda influenza su generazioni di musicisti jazz, aveva iniziato la sua strada alla fine degli anni ’70, coinvolgendo nei propri brani visionari e allungati, figli del jazz almeno quanto del folk rurale del Missouri, grandi calibri come Jaco Pastorius. Il grande successo degli anni ’80, con album come “Offramp”, “As falls Wichita, so falls Wichita falls”, “American Garage” e soprattutto con l’epico doppio live “Travels”, è stato seguito da un decennio maggiormente dedito alla sperimentazione e ai progetti paralleli. Il ritorno in pista della formazione, ormai attestata su un trio base costituito da Pat Metheny alle chitarre, Lyle Mays alle tastiere e Steve Rodby al basso, avviene con un album, “Speaking of now”, che per molti versi è un omaggio proprio alle grandi melodie e ai grandi spazi raccontati da quei primi dischi, seppur contaminato dalle esperienze successive. Capello inscurito in maniera sospetta (qualche anno fa era brizzolato) e per il resto il solito sorriso da bravo ragazzo in jeans, maglietta e scarpe da passeggio senza calze anche a gennaio, Pat Metheny è più che disponibile a raccontare questo nuovo capitolo del suo viaggio.Iniziamo a parlare del nuovo album, che sembra un invito a guardare il presente. A cosa ti riferisci, nel titolo?
Credo che avremmo potuto utilizzare il titolo “Speaking of now”, “Parlando di adesso”, per qualsiasi album del Pat Metheny Group a partire dal primo, visto che questo può essere considerato il nostro credo o il manifesto della band. Volevamo usare la nostra curiosità e il nostro interesse nei confronti della musica, cercare di utilizzare nuove tecnologie e strumenti acustici, valorizzando la tradizione e al tempo stesso immaginando il futuro. Ci è sempre piaciuta l’idea di esprimere la nostra idea riguardo a ciò che abbiamo intorno, visto che questo ci sembra un momento molto speciale per la storia dell’uomo.
Al tempo stesso quando dico “parlando di adesso”, mi riferisco a un “adesso” molto personale, non generico. Non ci interessa dichiarare la realtà di nessun altro se non la nostra. Ho scoperto che quanto più sono personale nell’esprimermi con la musica, tanto più divento universale. Le cose che sono vere per me, e che trovo grazie all’aver viaggiato in tutto il mondo, sembrano essere le cose a cui la gente riesce a relazionarsi più facilmente.
“Speaking of now” presenta una formazione del PMG completamente rimaneggiata rispetto al passato. Pensi ai nuovi componenti come membri stabili o di passaggio?
Per me l’idea di avere un gruppo è sempre stata importante. Avere una band che conosci bene, e non dei musicisti qualunque, offre una sensazione rassicurante. Credo che la gente abbia sempre apprezzato questo, nel gruppo. È una band che occasionalmente cambia elementi, ma il nucleo è rimasto sempre lo stesso, e questo è stupefacente se si pensa che siamo insieme da tanti anni. Non credo che Richard Bona farà parte del gruppo per i prossimi 30 anni, ma è un musicista importante e noi siamo onorati di averlo con noi in questa occasione. Antonio Sanchez è un grandissimo batterista, quello che aspettavo da anni. Sognavo un batterista così, e ho dovuto aspettare che nascesse. Lo stesso discorso vale per Cuong Vu, il nuovo trombettista e cantante, che è molto bravo. È difficile prevedere quanto staranno nella band, d’altra parte non avrei mai pensato che io e Lyle saremmo stati insieme per 25 anni! A dire il vero non sono molto preoccupato: questa è la band, abbiamo appena registrato un album, adesso partiremo per un tour… iniziamo da qui, intanto…!
Hai detto che questo nuovo album del PMG è stato quello in cui tu e Lyle siete tornati a scrivere di più insieme. Come te lo spieghi?
Direi che negli ultimi 8-9 anni la nostra collaborazione è migliorata, siamo stati in grado di scrivere molto materiale e abbiamo trovato molte cose di cui parlare, molte aree da esplorare. Lavoriamo bene come team di autori perché abbiamo un grande rispetto l’uno per l’altro, e miriamo allo stesso obiettivo, cioè ad ottenere il meglio. Cerchiamo la migliore soluzione musicale di ogni problema. Credo di essere stato molto fortunato a poter lavorare con lui per tutti questo anni e credo che anche lui pensi la stessa cosa. E’ una collaborazione che migliora anno dopo anno.
Di fatto, “Speaking of now” sembra essere un album enormemente più semplice di “Imaginary day”, almeno nell’approccio. Mi sembra di tornare in alcuni momenti a un approccio più simile ai tempi di “Travels”…
Posso riconoscere il legame tra questo album e alcuni dei miei primi dischi, nel senso che il valore della melodia è predominante rispetto al resto. È questo l’elemento che accomuna “Speaking of now” ai primi album, perché per il resto posso dirti che la struttura attuale dei brani così come si è evoluta nel tempo è molto più complessa dei nostri primi lavori, anche se sembra semplice. Questa è una nostra caratteristica da sempre. Possiamo fare cose molto strane che però scorrono bene. È successo anche questa volta, e abbiamo passato ore a scrivere e arrangiare in modo tale da offrire alla gente della musica capace di affascinare da subito. Lavorare inoltre con la nostra nuova band significa avere musicisti più giovani di noi di 15 anni, cresciuti con i primi album del Pat Metheny Group e quindi ispirati ad ottenere quel suono. Per questo forse con questa band abbiamo raggiunto dei risultati simili a quelli dei nostri primi album.
Ciò nonostante ci sono alcune composizioni che firmi in solitario. Quante canzoni hai scritto e cosa ogni volta ti muove a scrivere una canzone?
Prima di coinvolgere Lyle nella composizione e ancora prima di sapere quale sarebbe stata la band, avevo esattamente chiara l’idea di come sarebbe stata, e ho scritto molta musica, perché volevo ritornare a porre al centro delle composizioni la melodia, a differenza di quanto fatto negli ultimi due album, dove abbiamo lavorato su aree specifiche di interesse, che avevano a che fare con la tessitura, con un certo uso della tecnologia o con certi beat. Questa volta sapevo che volevo essere molto intenso sul versante melodico e così ho dovuto scrivere molto e per molto tempo. Ogni 20 piccole idee che avevo ce n’erano forse due che avevano la qualità giusta per questo disco. Così ho passato molto tempo scrivendo dalla mattina alla sera. Quando ho finito le ho radunate e ho scelto quelle che mi sembravano migliori.
Pensavo al video di “Last train home”, a titoli come “The road to you”, “Travels”, “Letters from home”, e mi viene in mente che forse sei uno dei pochi che ha saputo dare un suono alla distanza. E’ qualcosa che è sempre stato dentro di te?
La gente mi ha sempre parlato dell’implicazione geografica della nostra musica, oserei dire della sua grandezza in scala, nel fatto che sembra evocare le distese delle praterie americane dove puoi vedere per miglia e miglia, e credo che sia vero. Credo che il Missouri offra un cielo veramente grande, e spazi tre volte più ampi che in Europa. C’è più orizzonte, e questa non è un’impressione ma un carattere geografico reale, e se ti spingi più a ovest del Missouri vedrai che è un elemento ancora più sentito. È difficile fare una correlazione su come tutto ciò si ripercuota nelle canzoni, ma è di sicuro una circostanza che influenza tutto quello che scrivo.
Parliamo di un album di qualche tempo fa, “Secret story”, un vero e proprio disco chiave, nel quale hai fatto tutto da solo: a cosa ti è servita quell’esperienza?
“Secret story” è stato un disco davvero culminante per tutto quello che era successo fino a lì nella mia vita di musicista. Credo sia stato l’unico momento in cui ho deciso di dedicarmi a un progetto di grande importanza senza coinvolgere il gruppo. In un certo senso avevo bisogno di fare pulizia dentro di me, eliminando tutte quelle cose che vi si erano stratificate negli anni. Quel disco arrivò anche in un momento in cui ero interessato a un certo tipo di densità, volevo riempire ogni momento con qualcosa. Prima di allora la mia musica era molto più aperta, e dopo quel disco è ritornata ad esserlo. Nel caso di questo disco invece era tutto molto opaco, era una musica attraverso la quale non potevi guardare. Credo che quel disco sia stato il frutto di un periodo molto significativo per me, ha messo insieme tutta una serie di cose, ma soprattutto la densità.
Parliamo del tuo rapporto con il cinema: nonostante tu faccia una musica molto cinematografica sei stato coinvolto relativamente poche volte nel cinema; penso a “Passaggio per il paradiso”, “A map of the world”, “Fandango”… come sono nati questi progetti?
Scrivere musica per un film è diverso dal resto di tutto quello che faccio con la musica. Amo il cinema e per scrivere un film è necessaria una disciplina che non è del tutto diversa da quella necessaria per improvvisare musica e jazz, ma ci sono alcune cose in comune. Quando scrivi per il cinema, per prima cosa devi essere molto veloce; tutte le colonne sonore che ho scritto sono state fatte in pochi giorni, normalmente la musica è l’ultima cosa a cui si pensa e quindi devi essere in grado di pensare veloce. Poi devi essere in grado di entrare in una specifica narrazione, farla diventare tua ed esprimerla con la musica e tutto questo non è diverso dal fare il jazzista. È difficile lavorare a quei livelli, tanto artisticamente che a livello sociale, perché c’è molta pressione: tutti hanno un’opinione della musica tu devi tenerle tutte presenti ed essere flessibile. Ho una grande ammirazione per chi scrive sei sette colonne sonore all’anno. Per quanto mi riguarda non è una cosa che non posso trattenermi dal fare. Spesso quelle che mi propongono non mi interessano, ma ormai sembra che ogni cinque sei anni sia destinato a farne una. Così adesso aspetto la prossima, quando verrà.
Ti emoziona avere un tuo pezzo in un film storico come “Fandango”?
Fandango è stato un lavoro interessante. In origine avremmo dovuto scrivere noi tutta la colonna sonora del film, e in un certo senso speravo che avremmo potuto farlo. Poi per tutta una serie di ragioni che non ho mai capito fino in fondo, quelli della produzione hanno finito per usare un po’ di nostri brani. E’ incredibile quanta gente si sia avvicinata alla nostra musica grazie a quella musica. E pensare che il film conteneva solo tre nostre canzoni: “It’s for you”, “Farmer’s trust”, “September fiftheen”. Ancora oggi molta gente ci dice “vi ho ascoltato per la prima volta in fandango”. Molta gente, milioni e milioni di persone, non avrebbero mai avuto la possibilità di ascoltare musica come la nostra se non avessero visto dei film, per cui di certo il cinema è un mezzo che aiuta.
C’è qualcosa che conosci e che ti piacerebbe suonare della musica italiana?
Una delle cose più belle per me è venire in Italia e aver sviluppato un rapporto con il pubblico italiano che considero davvero speciale. Abbiamo avuto un grande successo qui e per me e per il resto della band è il momento migliore del tour. Incontrare la gente, e in generale tutta l’esperienza di essere qui è fantastica. Ho avuto anche la possibilità durante gli anni di conoscere alcuni musicisti italiani, il migliore dei quali è pino daniele, con il quale anni fa ho fatto un tour splendido. Ci conosciamo bene, ma ce ne sono altri bravissimi, come enrico rava… l’italia ha una cultura musica magnifica, ha una storia e un rapprto con l’arte in genere che non c’è da nessun altra parte. sono contento di avere questo rapporto con il pubblico e spero che continui.
Molti parlano con te solo di musica: ma come trascorri una tua giornata tipo, dal mattino alla sera?
Be’, è una cosa che varia molto, dipende da cosa sto facendo. Se sto facendo un disco tutte le ore che posso stare sveglio normalmente lavoro, tipo 18-20 ore al giorno, a volte per settimane. Ma se sono in tour faccio un’altra vita: si viaggia, ci si sposta di continuo e quindi non puoi fare molto. Nella mia vita civile, regolare, sono uno come tutti: cerco di fare le cose che devo fare, pagare le bollette, occuparmi delle mie cose. È difficile comunque che faccia esercizi per la chitarra, come è difficile che faccia ginnastica. Dipende dal tempo. Se ho del tempo a disposizione normalmente scrivo musica e lo faccio più spesso al piano che alla chitarra.
(Luca Bernini)