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Un gruppo 'di culto' che rischia pure di vincere un grammy...

Se esistono musicisti consapevoli del fatto che il verbo “to play” significhi tanto “suonare” quanto “giocare”, questi sono John Flansburgh e John Linnell, dagli anni ‘80 attivi con il nome di They Might Be Giants. Nel corso di un ventennio di carriera sono riusciti a far conoscere le loro canzoni per via telefonica (il celebre servizio “Dial-a-song”, da qualche anno anche su Internet all’indirizzo dialasong.com), registrare senza elettricità utilizzando un macchinario del 1898, pubblicare versioni alternative di loro canzoni con testo in greco o con le voci di giovani scolari, saltare indifferentemente dalla polka a ritmi swinganti, scrivere un testo basato sui personaggi di Mr. Tambo e Urine Man (ricavati ovviamente dal “Mr. Tambourine man” di Dylan) e l’elenco potrebbe continuare ancora per un bel po’. E’ possibile rischiare di vincere un Grammy Award e continuare a non prendersi sul serio? Certo che sì, come ci ha spiegato lo stesso Flansburgh, chitarrista del duo statunitense.

“Mink car” mi ha dato l’impressione di un album in perfetto stile They Might Be Giants: tendete sempre a mettere un po’ di tutto nei vostri dischi.
Mi piace pensare che cambiamo continuamente forma. C’erano dei demoni che venivano chiamati “shapeshifter” perché riuscivano a mutare le loro sembianze. Noi siamo una specie di “shapeshifter” musicali perché non riusciamo mai a fare un disco classificabile in un genere particolare, di solito saltiamo da uno all’altro e questo vale anche per “Mink car”. Penso inoltre che in questo album non ci siano riempitivi, sono tutte buone canzoni.

Una delle quali, “Boss of me”, vi ha fatto guadagnare addirittura una nomination ai Grammy Awards. E’ piuttosto sorprendente vedere il vostro nome lì in mezzo.
Sì, è un evento molto strano perché siamo degli outsider nell’industria musicale. D’altra parte, “Boss of me” ha ottenuto un buon successo come sigla della serie “Malcolm in the middle” e probabilmente era difficile da ignorare. Detto ciò, ci siamo trovati nominati insieme a Sting e Faith Hill. Non so se alla premiazione ci faranno sedere vicino agli altri che hanno ottenuto una nomination nella nostra stessa categoria, ma se dovessi trascorrere due ore di fianco a Sting potrei impazzire.

Perché?
Sarei completamente a disagio. Non odio Sting, solo che non credo proprio di appartenere al suo stesso mondo.

E se vi capitasse di vincere, cosa direste?
Domanda interessante. Per ora mi sono limitato a dare per scontato che non vinceremo. Non so proprio. Tempo fa abbiamo fatto una trasmissione con Joe Franklin, che è una specie di istituzione della televisione americana, ha cominciato all’inizio degli anni ‘50. Noi siamo apparsi diverse volte al suo spettacolo e siamo diventati amici. Ci ha fatto promettere che se avessimo vinto il Grammy lo avremmo ringraziato. A parte questo, non so proprio cosa potremmo dire.

Come scegliete le cover? Su “Mink car” avete inserito una versione di un vecchio pezzo degli anni ‘60 come “Yeh yeh” e di recente avete registrato anche “Ram on” di Paul McCartney per una compilation…
Oh, sì, ci hanno chiesto di partecipare a un disco benefico in favore della ricerca sul cancro. Non facciamo cover molto spesso… Per scegliere un pezzo altrui devi avere un’idea di cosa puoi farne. Molta gente pensa semplicemente che riprendere una vecchia canzone sia un buon modo per rimetterla in circolazione, ma da musicista sento che non sia sufficiente. Penso che sia necessario portare qualcosa di nuovo nel brano che riprendi. La nostra versione di “Yeh yeh” è molto diversa dall’originale, ci sono molte idee di arrangiamento. Mi piace la versione originale, penso che sia difficile fare qualcosa di altrettanto folle. E’ strano che facciamo cover e in effetti la gente tende a pensare che si tratti comunque di canzoni che abbiamo scritto noi. Ad esempio, abbiamo avuto successo con “Istanbul (Not Constantinople)”, che è un pezzo degli anni ‘50, ma parlando con la gente mi sono reso conto che i più pensavano che fosse roba nostra. Il che ha senso, perché lo stile di quella canzone è simile a quello delle nostre. Il bello di fare cover è che è un modo per collegarsi a mondi musicali precedenti.

Per molti però è anche un modo per rendere omaggio a musicisti che li hanno ispirati. Voi invece non avete mai inserito nei vostri album canzoni di artisti che probabilmente vi hanno influenzato, come Jonathan Richman o gli XTC, ad esempio.
Sarebbe una mossa un po’ troppo ovvia da parte nostra. Comunque abbiamo ripreso un brano degli XTC per una compilation di tributo ed è stato molto difficile scegliere il pezzo. A dire la verità, io non sono un loro grande fan. Comunque alla fine abbiamo optato per “25 o’ clock”, che avevano pubblicato sotto il nome di Dukes Of Stratosphear: funzionava per noi perché era una specie di canzone psichedelica inglese e ci è sembrato rivederla nello stile del garage rock americano, con un sacco di organo Farfisa. In ogni caso, con una cover devi riuscire a immaginare cosa puoi aggiungere di tuo.

Dopo avere pubblicato diversi dischi con la Elektra, adesso siete fuori dal giro delle major. E’ dura tornare nel circuito indipendente?
Adesso siamo in una situazione fortunata. I nostri dischi sono distribuiti dalla BMG. In un certo senso abbiamo il meglio dei due mondi: una distribuzione molto grossa, e un’etichetta che non esercita pressioni particolari su di noi. Abbiamo passato un bel periodo alla Elektra, ma a un certo punto, come tutte le major, si è orientata sempre di più verso l’hip-hop. Sono stati i cambiamenti del mercato a determinare la situazione, capisco che questi abbiano anche mutato il loro rapporto con noi. E’ un momento strano per le major. Negli USA c’è una grande recessione, le vendite dei CD calano ed è dura stare a galla. Per restare con la Elektra, avremmo dovuto avere il potenziale per diventare molto, molto grandi. Quello è il business in cui lavorano: possono avere venti artisti, con tre superstar e altri diciassette che tengono perché amano la loro musica. Noi abbiamo avuto una carriera lunga e fortunata rispetto a molti altri gruppi: c’è un pubblico che ci segue nei concerti e vendiamo abbastanza dischi, ma non abbiamo un potenziale infinito sul mercato, che è l’aspetto che interessa di più a una major.

Avete comunque abbastanza potenziale da giustificare un documentario su di voi, “Gigantic”; Quando uscirà?
Sarà nei festival fra un paio di mesi. Non l’ho ancora visto e in un certo senso mi mette un po’ paura perché è un documentario su di noi. Io sono intervenuto solo nella fase di mixaggio di parte della musica, ma non ho visto il materiale montato. Sarà interessante, hanno intervistato un sacco di gente coinvolta nella nostra carriera e sono curioso di ascoltare quello che hanno raccontato.

Ma avete a che fare in qualche modo con l’idea di partenza?
No, il progetto è partito dal regista, non siamo coinvolti in alcun modo. E’ un documentario nel senso tradizionale del termine, non è un’idea che arriva da noi. Se dovessimo fare qualcosa del genere, punteremmo soprattutto sulla musica, non ci interesserebbe ripercorrere la nostra storia.

Siete molto attivi sul versante della musica in rete e avete messo in circolazione diversi pezzi in formato MP3. E’ un modo per sopperire alla crisi del mercato discografico tradizionale?
Penso che il nostro interesse verso quel formato sia essenzialmente creativo. E’ divertente farlo, ci piace fare parte di un mondo dove la musica viene messa a disposizione di chi la vuole. Concedere la nostra musica è una delle cose più gioiose che possiamo fare. A chiunque sia nel music-business e lo consideri in modo un po’ cinico, raccomando di scrivere una canzone e metterla in rete: è una grande soddisfazione. Da musicista, devo trovare il modo di guadagnarmi da vivere suonando, e ci sono diversi modi per farlo, il che non significa che mi debba limitare a seguire una sola strada. Noi cerchiamo di avere un approccio positivo al fatto di mettere in circolazione le nostre canzoni gratuitamente, senza l’assillo di dover essere pagati.

Ho l’impressione anche che sia un modo per liberarvi di un po’ di materiale. Sembra che i dischi non siano sufficienti per tutto quello che scrivete, visto che continuate a mantenere il servizio telefonico “Dial-a-song”, anche su Internet…
Siamo attratti dall’idea di avere modi alternativi di distribuire la musica. E poi… siamo persone nervose, se ci limitassimo a registrare e pubblicare album, tutto diventerebbe troppo importante e ci innervosirebbe ancora di più. Penso che le nostre cose migliori escano quando siamo consapevoli del fatto che non hanno nessuna importanza, sono insignificanti. E’ eccitante suonare senza preoccuparsi di ciò che stai facendo, farlo solamente per divertimento. Quindi cerchiamo di trovare sempre nuovi pretesti per divertirci piuttosto che cercare il modo per rendere significativo quello che facciamo.

Cosa puoi dirmi di “No”, l’album di canzoni per bambini che avete registrato?
Uscirà ad aprile, stiamo completando adesso la confezione. E’ davvero fantastico, mi ricorda molto il nostro primo album. Le canzoni coprono un’ampio spettro di stili diversi e c’è anche un aspetto didattico: diversi brani si ispirano al vocabolario. E’ difficile dire se i bambini più piccoli lo apprezzeranno, ma a quelli di sei o sette anni dovrebbe piacere: a quell’età in genere impari un sacco di parole e molte canzoni vanno in quel senso, sono delle liste di vocaboli. Sarà un enhanced-CD, a ogni brano corrisponderanno delle animazioni e ci sarà anche la possibilità di vederne delle parti sul sito giantkid.org.

Ho l’impressione che possa piacere anche ai vostri fan abituali
Molti adulti che ci seguono sono attratti dall’idea. Posso solo dire che sarà diverso da un normale album rock, le voci sono state registrate a un volume più alto. Piacerà a quelli che finora hanno avuto difficoltà a capire le parole.

(Paolo Giovanazzi)

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