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La cantautrice di Boston parla con Rockol...

Già nel 1997 il New Yorker la definiva senza mezzi termini “una dea del folk-rock”. Autentica, ispirata, appassionata: Catie Curtis, arrivata con “My shirt looks good on you” al quarto album, è una delle voci più interessanti della vivace comunità musicale di Boston e dintorni, ma non solo. Lei che non voleva colpire troppo nessuno (“M’importava solo di suonare”, ha spiegato, e ci crede davvero) ha finito con l’incantare mezza America grazie al suo ultimo tour, conclusosi di recente (in primaver passerà anche in Italia). Parlarle, ascoltare un suo disco è po’ come fare una passeggiata in un bosco a primavera. Rilassante, piacevole. Refreshing, direbbero gli anglofoni.

Quando hai deciso che saresti diventata una musicista?
Non avevo mai pensato di fare questo mestiere professionalmente. Fino a dieci anni fa lavoravo come assistente sociale. Suono e ascolto musica da quando sono piccola, ma immaginavo che mantenersi facendo concerti e incidendo dischi fosse al di là delle mie possibilità. I fatti mi hanno dato torto.

All’inizio del tuo lavoro facevi quasi tutto da sola. Il tuo ultimo album, “My shirt looks good on you”, è invece frutto di intense collaborazioni. Come descrivi questo cambiamento di rotta?
Ho preso esempio da un mio amico, Mark Sandman dei Morphine, che purtroppo è morto durante un concerto. Lui diceva sempre: “Non mi importa di condividere tutte le opinioni della gente con cui suono. Se anche loro fanno un altro genere di musica, basta che ci sia un punto di contatto, e si lavora assieme.” Ho capito che fare le cose in gruppo è l’unico modo per non esaurire la propria creatività.

Dalle foto del tuo sito internet, www.catiecurtis.com, sembra che in effetti la vita di studio durante l’incisione dell’ultimo album sia stata piuttosto vivace.
Sì, abbiamo tutti delle facce allegre. Ho capito che dalla collaborazione e dalla condivisione di responsabilità nascono le idee migliori. Se riascolto i miei primi due album, “Truth from lies” e “Catie Curtis”, ho come l’impressione di non essere io. Sento un gelo e una freddezza da cui spero di essere riuscita ad allontanarmi negli ultimi due lavori.

Ti sei circondata di gente importante: la tua produttrice è Trina Shoemaker, la stessa che ha lavorato su “The globe sessions” di Sheryl Crow.
Trina è una donna eccezionale. Abbiamo inciso l’album al Dreamland, uno studio di New York che sta all’interno di una vecchia chiesa sconsacrata, tutta in legno. Trina ha piazzato qua e là dei microfoni per “catturare” anche i suoni dell’ambiente. E mi sembra che ci siamo riusciti. Alcuni di noi sono convinti che abbiamo registrato anche i rumori dei fantasmi…

Hai lavorato con altre donne piuttosto quotate, come Gail Ann Dorsey che suona il basso con David Bowie e Julie Wolf, la tastierista di Ani DiFranco.
Sì, e riflettendoci sopra mi rendo conto che non è poi così frequente lavorare con tante donne. Il mondo della musica appartiene ancora prevalentemente ai maschi. E’ facile che le ragazze facciano le coriste, ma di musiciste vere e proprie ce n’è molto poche. Una volta io, Gail, Julie e Trina eravamo in studio a provare dei suoni. E’ entrato Billy Conway dei Morphine, che mi ha dato una mano per questo disco, e ha detto: “Quattro donne in una stanza! Si salvi chi può.” Questa era una battuta, chiaro. Ma è vero che la mia esperienza non è poi così frequente.

Nell’album hai praticamente eliminato la chitarra elettrica, e invece usi molto il mandolino.
Volevo fare qualcosa di veramente diverso dal solito. E’ un periodo in cui cerco di uscire dai canoni, di rompere le righe. Ho la sensazione che se facessi altrimenti mi annoierei.

In effetti fai una vita piuttosto movimentata.
(Ride) Sì, ho la sensazione di essere stata un po’ in giro negli ultimi tempi. Abbiamo suonato per mezza America, e del resto per una come me fare serate dal vivo è fondamentale. Il pubblico cambia di continuo, e tu cambi assieme al pubblico. Ci sono posti in cui la gente è talmente esigente da farti temere che non ce la farai. Posti in cui ti devi davvero sudare la serata, e hai l’impressione che il destino delle persone che ti stanno ascoltando dipenda da te. Molto responsabilizzante…

I testi delle tue canzoni sembrano molto personali. Non rischi di metterti troppo a nudo raccontando cose così intime?
Il trucco sta nel non parlare esattamente di te. Io sfioro temi che mi riguardano personalmente, poi mi sposto altrove. Il risultato è che le canzoni hanno un’aria autentica e allo stesso tempo riesco a non mostrare la mia anima a tutto il mondo. Mi sembra un buon compromesso, e poi è una cosa che dichiaro apertamente. Non vado in giro a raccontare che in quelle canzoni sto parlando di me.

Neanche in “Love takes the best of you”?
No, perché parlo di mia sorella. E’ la storia di un’adozione. Lei ha adottato un bambino, e trovo che sia una cosa meravigliosa. Io ci sto ancora pensando su.

Perché un titolo come “My shirt looks good on you”?
Mi sembrava benaugurante. E’ un modo per tirarsi su in quest’anno difficile. Dire a una persona “La mia maglia ti sta bene” è una frase che presuppone condivisione, vicinanza con qualcuno: significa che quella maglia gliel’abbiamo prestata, e già questo è un bel passo. E poi è un complimento. Non so. La frase mi metteva allegria, e l’ho scelta.

Sul tuo sito invece i fan parlano di una “Flying squirrel shirt”. Che cos’è?
Una sciocchezza molto divertente. Dopo l’11 settembre una sera in concerto ho messo questa maglietta con uno scoiattolo, e ho detto qualcosa tipo: “Questa maglietta ci porterà fortuna. La metterò tutte le sere in concerto, e le cose andranno bene”. Il pubblico ha cominciato a prendermi in giro urlando frasi tipo: “Se la metti tutte le sere le prime file saranno sempre vuote. Non potremo resistere alla puzza”. Io allora ho detto che di magliette così ne ho centinaia. Il risultato è che continuo a lavare la stessa, e a cercare di metterla il più possibile. Ormai è diventata quasi una leggenda.


(Paola Maraone)

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