Quando lo incontri, ti accorgi subito che a Shel Shapiro non piace parlare del passato. Perché il suo, quello trascorso insieme ai mitici Rokes, è qualcosa a cui tiene molto: troppo per dividerlo, come se nulla fosse, con la prima persona che si trova davanti. E’ come un tesoro da custodire lontano dalle parole, che lo rovinerebbero, e da qualsiasi manipolazione, che possa tramutarlo in un triste e patetico revival. I suoi ricordi, sono belli e incantati. E, come ci ha raccontato in una lunga intervista, fumando sigari e sorseggiando tè come solo un perfetto inglese sa fare, “i ricordi meritano rispetto e dignità”. Shel preferisce di gran lunga il presente: quello vivo che fa nascere nuovi dischi, come il suo ultimo “Shel”, e fertile, quasi quanto gli anni in cui canzoni come “Che colpa abbiamo noi” dominavano le classifiche italiane. Oggi Shel, mentre mette in mostra due lunghi orecchini d’oro a forma di stella di David e di nota musicale, è ancora pieno di passioni. Anche se, spesso, è difficile trasmetterle. Non è una novità, in questo strano mondo. L’importante, come cantavano i Rokes, è “vivere alla giornata”. “Shel”, il nuovo album, arriva a 15 anni di distanza dal tuo ultimo lavoro, “Per amore della musica”. Il solo fatto che sia passato tanto tempo vale la pena di parlarne.
Già, è vero. Sono passati 15 anni. Non è bello far finta che le cose non siano così. 15 anni, sì… . E’ così.
Come è nato il disco?
Attraverso sofferenze e lacrime e un sacco di cose. E’ nato perché ci sono dei momenti in cui uno ha qualcosa da dire e altri in cui hai meno da dire. Il mio motto dice “quando non hai niente da dire stai zitto”. Spero di avere qualcosa da dire. Il disco mi sembra ben riuscito e riflette abbastanza quello che volevo fare.
Colpisce il titolo, “Shel”, che è molto personale. In fondo hai avuto parecchio tempo per pubblicare un disco con il tuo nome. Eppure, arriva solo ora, nel terzo millennio…
Il problema è che chi ha 40, diciamo più di 35 anni, in genere mi conosce abbastanza. Almeno, conoscono il mio passato. Ci sono un sacco di ragazzi che si chiedono chi sono quando mi vedono, pensano io sia un cantante ma non sanno dire chi. Non riescono ad associare faccia e nome. Quindi ho pensato bisognasse fare un’operazione di marketing e riassociare il nome Shel ad una faccia. Voglio cercare di arrivare a persone che magari mi conoscono di vista ma non sanno bene chi sono.
Hai appena detto che molti giovani si chiedono chi sei. Ti interessa particolarmente comunicare con loro e far sapere chi eri?
No, non me ne frega niente. Non sono uno che ama parlare del passato. Forse anche perché avendo lavorato sempre più o meno nel mondo della musica e dovendomi tenere aggiornato è sempre stato “oggi” e “domani”. Questa cosa bellissima accaduta in passato, l’aver fatto parte di un gruppo estremamente popolare in quegli anni come i Rokes, è anche limitante, per certi versi. Quindi per alcune persone tu inizi e finisci lì. Se i ragazzi vogliono sapere, bene. Però mi interessa comunicare oggi su fatti di oggi. E su cose di domani.
E tu, di Shel Shapiro oggi, che cosa vorresti comunicare?
La domanda è carina, la risposta è molto più difficile! Sono uno che vive, che combatte come la grande, grande maggioranza di noi. Uno che cerca di far valere alcuni diritti nella vita quotidiana, che lotta non per sopravvivere, ma per cercare di vivere bene. E credo che questo sia il problema del 99% dell’umanità.
Hai detto che non ti interessa fa conoscere il tuo passato, eppure in questo disco il passato ritorna eccome: infatti ci sono molti successi dei Rokes…
Sì, però sono versioni talmente lontane dalle originali che possono essere considerate come canzoni nuove. E’ chiaro che la discografia ti spinge a inserire dei pezzi vecchi in modo che la gente possa associarti ai Rokes piuttosto che ad altro. Rifarli come erano a me non importava. Ho appena visto una raccolta di nostri pezzi di 35 anni fa… quindi se li vuoi com’erano, non è poi così difficile averli. Il grande pericolo di rifare i pezzi vecchi è quello di scadere in versioni troppo simili alle originali. Non ha senso. Diventa una marchetta. Diventa stupido.
E’ molto attuale. E’ incredibile che dopo tanti anni quello che canti risulti fresco. Con tutte le cose che sono successe, con i No Global e la politica…
La musica, secondo me, non rappresenta mai i movimenti di massa. Viene usata come esempio di massa, ma non li rappresenta. La politica non c’entra con la musica. Poi, che la musica in qualche modo sia politica è vero. Sono due strade che secondo me bisogna tenere molto chiaramente separate. Quando io sento l’intervento di Frankie mi emoziono. Lui ha trovato questo equilibrio meraviglioso tra quello che era il testo originale e la parte nuova da inserire, senza farla sembrare fuori posto, pur essendo scritta 35 anni dopo. L’arrivo di Frankie è stata come aria fresca.
Che differenza di consapevolezza c’è tra le cose che dice Jovanotti oggi e i Giganti che, allora, cantavano “mettete dei fiori nei cannoni”?
Credo proprio ci sia, una differenza. Tutta la storia sociale italiana dalla metà degli anni ’60 fino alla metà dei ’70… secondo me in quel periodo sono state, in parte, chiarite molte cose. Non hanno mai chiarito la verità, però hanno chiarito i rapporti tra musica e vita sociale, che allora era molto più supposto che non oggi. Jovanotti canta “Salvami”. E’ una dichiarazione. Entrare nel merito della cosa, se mi piace o meno, non ha senso. Credo ci sia più consapevolezza oggi, perché c’è più gente che nel mondo combatte per alcuni diritti fondamentali.
Hai detto che la politica non c’entra con la musica, eppure i Rokes hanno vissuto in un’epoca particolarmente impegnata, in quel senso…
Io credo che i Rokes fossero inconsapevolmente, e dico inconsapevolmente perché non parlavamo così bene l’italiano per capire le sfumature di certi discorsi, quelli politicamente più impegnati. Tolti pochi, come l’Equipe 84 che ha scritto “Bang bang”, gli altri facevano canzoni d’amore. I Nomadi hanno cominciato a scrivere qualcosa del genere, dopo di noi, devo dire, però non ha importanza il dopo o il prima. Stranamente, credo che da un punto di vista sociale le nostre canzoni abbiano segnato i tempi molto di più di quelle di qualsiasi altro gruppo italiano. Il “mettete dei fiori nei cannoni” dei Giganti, come mi sembrava allora mi sembra oggi: una bella trovata. Però non so quanto rispecchiasse il loro vero pensiero. Mi sembrava più opportunista che non fondamentalmente sentito.
E’ anche vero che allora era tipico “montare” un gruppo per creare aspettativa, che poi non è molto diverso da ora, in effetti. Quando i Rokes arrivarono in Italia, questo “favoloso gruppo inglese” sarebbe dovuto diventare il più grande rivale dell’Equipe 84. Un po’ come con i Beatles e i Rolling Stones…
Quello era un gioco. Devo comunque dire che ai fini del risultato è servito. I Beatles e i Rolling Stones sono diventati così popolari proprio perché c’era questo tipo di rivalità. Sicuramente il fatto che i Rokes venissero presentati in un certo modo al pubblico italiano è stato una forte promozione, per entrambi i gruppi senz’altro. Però, come nel caso dei Beatles e dei Rolling Stones, non credo che fosse una cosa così programmata. Era un evento quando succedeva, perché ognuno sposava i propri eroi.
Una domanda a Shel produttore: risentendo i vecchi pezzi dei Rokes ciò che rimane in mente è qualcosa dell’arrangiamento o la forma di costruzione della canzone più ancora che l’esecuzione della stessa. Oggi sembra diverso: quando una canzone è forte, funziona in un modo o nell’altro. Credi sia effettivamente così o è solo un’impressione?
La musica allora si considerava in un modo diverso: era fatta di frasi, di arrangiamenti accattivanti, come melodia o come suono, e quello era sicuramente una caratteristica molto forte. Abbiamo i Beatles come esempio. Un disco allora doveva avere dodici secondi di introduzione, in modo che chi lo suonava in radio poteva avere il tempo di annunciarlo. In fondo ancora oggi è così. Credo che oggi forse la forma di comunicazione sia cambiata, ma il meccanismo è lo stesso. Non credo sia diverso, perché è un meccanismo di base, di psicologia.
Ppensi sia più difficile lavorare come discografico oggi rispetto a quando lo facevi tu?
Io ho sempre cercato di produrre dischi belli, prima di tutto. Questa era la regola fondamentale. Probabilmente è più difficile fare dei dischi belli oggi, perché il fare il disco è la parte minima dell’operazione. Se suona male è perché hai scelto che deve suonare così, perché con la tecnologia di oggi i suoni sono quelli che vuoi, quindi ci può solo essere buon gusto o cattivo gusto nel metterli insieme.
Quindi, come promuoverai il tuo disco?
Facendomi il culo!
Parlando sempre di promozione, alcuni tuoi colleghi famosi, tra cui anche Rita Pavone, si sono messi a fare “revival” in TV, facendo presenza un po’ ovunque. Tu invece sei rimasto nell’ombra, a lavorare.
Uno usa quello che può. Io ho un film molto importante in uscita, “Il nostro matrimonio è in crisi” di Antonio Albanese, dove sono co-protagonista con Antonio e con Vincenzo Cerami. Quindi, ognuno usa quello che ha. Riciclarmi con il revival? E’ così triste! Ci sono due modi per comunicare il passato: c’è il revival che è manipolazione di un’emotività che non esiste più e quello che riguarda la nostalgia intellettuale: è il fare l’amore con i ricordi. E’ coinvolgere emotivamente delle persone utilizzando, non in modo spregevole, dei messaggi che ti fanno ricordare. Io rifiuto la prima soluzione. Qualcuno dirà “ma anche tu l’hai fatto!”. E la risposta è “sì!”. E’ vero. Quando però me ne sono accorto mi sono estrapolato dalla situazione in cui mi trovavo. Oggi come oggi ci sto molto lontano. Io non voglio diventare la Nilla Pizzi degli anni ’80.
Quindi devo supporre che non tornerai in Inghilterra a prendere i tuoi due vecchi colleghi Bobby Posner e Mike Shepstone per riunire di nuovo i Rokes?
Ma manco morto! Manco in fotografia!
Uno dei Rokes è ancora in Italia, vero?
Sì, Johnny, ma è sempre stato qui.
Li senti ancora?
Sono vent’anni che non ci parliamo. Ma non perché abbiamo litigato. Perché è la vita che ti porta in direzioni diverse. C’è tanta gente che ci dice di rimetterci insieme: non ci penso nemmeno!
Però credo faresti felice molte persone.
Mah, secondo me questo non è vero, sai? Io trovo che questo sia un’ipotesi errata. Sì, o forse hai ragione, se tutti vogliono masturbarsi mentalmente. E basta, però. Perché riemozionarsi, oggi, è un’altra cosa. Abbiamo trent’anni in più, siamo cresciuti, abbiamo dei figli, abbiamo i nostri cazzi da risolvere! E’ inutile far finta che abbiamo 25 anni, che tutto va bene e che combattiamo il mondo. Non è così. Per quanto mi è possibile lo faccio, ma è una cosa molto personale. E poi trovo che non sarebbe possibile farlo con gente che negli ultimi trent’anni è stata in Inghilterra a lavorare in un pub o cos’altro. Credi possa ragionare come me? Ma non perché io ragiono meglio o peggio di lui: è che siamo cresciuti in modo diverso. Quindi bisogna lasciare le belle cose com’erano, belle, e trattarle con un minimo di rispetto e di pudore.
Che parte ha fatto Lucio Dalla in “Bisogna saper perdere” e come è arrivata la collaborazione?
Mi hanno detto: “Shel, facciamo un disco, però devi mettere otto pezzi vecchi e quattro inediti”. E io gli ho detto che pensavo proprio di fare l’opposto, perché scrivo musica. Voglio confrontarmi, non sembrare demagogico. Un giorno ho chiamato Lucio Dalla e gli ho raccontato del duetto con Frankie Hi Nrg e che volevo rifare “Bisogna saper perdere”. Lui subito mi ha detto: “Allora vengo anch’io a cantare!”. Non ho dovuto nemmeno chiederglielo. E’ venuto tutto in modo semplice.
Parte dei proventi del disco andranno sia alle vittime degli attentati statunitensi che ai bambini colpiti in Afghanistan. Sei uno dei pochi che ha deciso di dare contemporaneamente ad entrambe le parti.
Io trovo che siano e siano tutti delle vittime. Faccio fatica a credere che queste sono solo storie di terrorismo e trovo che il risultato di tutto sia terrificante, sia per le persone che si trovavano nei punti colpiti negli Stati Uniti che per questo popolo che si è trovato coinvolto. Il discorso sulla politica americana è discutibile, ma a questo livello hai assolutamente bisogno di gente competente per parlarne. Io non lo sono. Vado a sensazioni. E la mia sensazione è che è un gioco molto più grande di quello che noi possiamo percepire. Questo mi è sembrato un modo piccolo per aiutare, senza stare lì a fare grande retorica.
Nel disco ci sono due pezzi che vengono riproposti anche in inglese. Come hai deciso di registrarli?
“Sheryl’s going home” è la versione inglese di “Che colpa abbiamo noi”. L’ho tirata fuori perché, stranamente dopo molti anni, ho ritrovato l’LP originale di Bob Lind dove c’era quella canzone. “C’è una strana impressione nei tuoi occhi” in inglese si intitola “When you walk in the room”. E’ nel disco perché nei titoli di coda di “Operazione rosmarino”, un film dove ho recitato, c’è quella canzone. E’ per questo che ho voluto inserirla.
Andrai in tour?
Sì, ma bisognerà aspettare un po’. Prima vediamo come va il disco, poi cominceremo a promuovere il secondo singolo. Spero che in aprile o maggio andremo in tour. Mi piacerebbe suonare nei teatri o nei club, cambiando repertorio. Voglio però che la gente venga sapendo quello che troverà. Poi è anche bello scioccare, dando al pubblico qualcosa che non si aspetta. Vedremo.
(Valeria Rusconi)