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A colloquio con con John Petrucci, chitarrista della virtuosa band americana...

A vederlo così composto e pacato non sembrava certo il virtuoso musicista di una band metal progressive: eppure era proprio lui, John Petrucci, lo storico chitarrista dei Dream Theater, che Rockol ha intervistato in occasione della data milanese del “World Turbulence 2002”. Il tour nasce per promuovere il nuovo lavoro del gruppo intitolato “Six degrees of inner turbulence”, un doppio che si compone di sei lunghi brani, l’ultimo dei quali addirittura della durata di oltre quaranta minuti. Il concerto di Milano ha rispettato le attese: tre ore di musica intensa durante le quali i Dream Theater hanno ripercorso tutte le tappe più importanti della loro carriera, regalando al pubblico anche alcune chicche, come “Master of puppets” dei Metallica e i virtuosismi dei Liquid Tension Experiment..

La prima domanda è inevitabile: l’anno scorso avete pubblicato “Live scenes from New York”, un live sfortunatamente divenuto celebre per la sua copertina che raffigurava le Twin Towers avvolte dalle fiamme e che, per ironia della sorte, sarebbe dovuto uscire nei negozi proprio quel tragico 11 settembre. Come avete vissuto quel momento?
E’ stato veramente pazzesco. La grafica di quella copertina era basata su una linea di magliette che stavamo vendendo a New York: quando l’avevamo ideata, lo avevamo fatto in modo del tutto innocente. Il fuoco si riferiva al fatto che avremmo suonato a New York e le fiamme erano quelle di “Images and words”. Quando è successa la tragedia eravamo tutti chiaramente sconvolti. Per non parlare della pubblicazione dell’album che era proprio prevista per quell’11 settembre: una coincidenza incredibile. Appena abbiamo saputo quello che era successo abbiamo chiamato subito la casa discografica ordinando di bloccare tutto e di cambiare ovviamente la grafica dei CD. Una cosa veramente sconvolgente…

Passiamo ora al nuovo album. Come avete concepito il tema di “Six degrees of inner turbulence”, la lunghissima canzone che dà il nome al disco.
E’ nato dall’idea di scrivere un “grande pezzo”, una vera e propria “big song”. In effetti l’apertura , l’ “Overture”, doveva sembrare l’inizio di un film e anticiparne musicalmente i temi. Per quanto riguarda i testi invece “inner turbulence” si riferisce ai problemi emotivi delle persone, a delle vere e proprie malattie mentali. I “Six degrees” sono in realtà sei personaggi diversi in sei canzoni differenti.

Per esempio?
Protagonista di “About to crash” è la depressione maniacale che colpisce una ragazza sempre considerata perfetta da un padre eccentrico, mentre la canzone “Solitary shell” parla di un uomo che soffre di schizofrenia e che di conseguenza può apparire agli altri come una persona assolutamente normale, ma che in realtà può diventare pericoloso.

Incuriosisce anche “The great debate”. A che cosa si riferisce esattamente?
Ho scritto I testi di questa canzone la scorsa estate. Verte sulla controversia tra leader religiosi e grandi scienziati sorta in occasione della ricerca sulle cellule staminali. Si tratta di una ricerca effettuata sugli embrioni, in particolare sulle loro cellule che vengono prelevate al fine di curare alcune malattie. Le autorità religiose e la popolazione americana non accettavano tranquillamente questo tipo di interventi: prelevare le cellule significava comunque togliere la vita a degli embrioni umani; ma gli scienziati cercavano di valutare solo i vantaggi che sarebbero derivati da questi studi, come ad esempio la cura del morbo di Parkinson o di alcune malattie della colonna vertebrale. Così, tempo fa, il presidente Bush si è trovato costretto a prendere una decisione importante e cioè se il governo dovesse finanziare o no questo tipo di ricerca. Ecco, da qui è scaturito il “Grande dibattito”.

Anche in questo ultimo lavoro discografico, come nel precedente concept album “Scenes from a memory”, le canzoni sono molto lunghe e hanno delle strutture poco regolari. In un altro disco invece “Falling into Infinity” i brani avevano una forma più “classica”, più “pop”…
Si, è vero. Del resto anche lo stile dei nostri due primi album era assolutamente “non convezionale”. E così, prima di scrivere “Six degrees of inner turbulence”, abbiamo preso la decisione di lasciarci andare completamente, anche questa volta, e quindi di comporre in assoluta libertà, senza l’obbligo di dover seguire dei canoni.

L’ “Overture” che apre l’ultima traccia dell’album ricorda molto la musica sinfonica e operistica. Perché non avete deciso di lavorare con una vera orchestra?
Sai, in effetti avremmo potuto farlo, ma al momento era molto interessante vedere cosa avrebbe fatto Jordan con tutta la sua nuova strumentazione. Infondo riusciva a creare perfettamente l’effetto di una vera e propria orchestra anche solo con le sue tastiere. Insomma, è stata un po’ una sfida.

In questo brano si sente un po’ l’influenza dei Queen…
Dei Queen? Certamente! In effetti, mentre la scrivevamo, continuavo a ripetermi: “Questa è come ‘Bohemian Rhapsody’!”. Si, senza alcun dubbio c’è l’influenza dei Queen.

Nel nuovo disco ci sono canzoni (o parti di canzoni) molto “hard rock” come “War inside my head”, “The glass prison”, “The test that stumped them all”, e brani come “Solitary shell” o “Goodnight kiss” che invece sono molto soft, grazie anche ad alcuni arrangiamenti molto particolari. Perché avete scelto di far convivere generi così diversi all’interno dello stesso album?
Credo che faccia parte di quello che è il nostro stile. Del resto, a noi piace suonare canzoni molto dure e pesanti; c’è anche una larga fetta di pubblico che vuole ascoltare questo tipo di musica eseguita da noi. Nello stesso tempo abbiamo anche un’altra faccia, che puoi definire più soft o più pop. Penso che la combinazione di questi due aspetti sia ciò che “fa” la nostra band, la nostra identità.

Pensi che ci sia stata un’evoluzione nella vostra musica rispetto a “Scenes from a memory”?
Penso che ci sia stata una grande evoluzione. Abbiamo fatto delle cose strane nell’ultimo album che non avevamo mai fatto prima: pensa all’inizio di “Six degrees of inner turbulence” con l’orchestra. Anche “Misunderstood”, “Disappear” e “The great debate” differiscono molto dal nostri stile abituale, nel modo in cui sono state scritte e registrate.

Avete intenzione di mettere in piedi uno show con attori come quello che avevate fatto per “Scenes from a memory”?
Non penso, non abbiamo programmato nulla per il momento.

C’è invece qualche novità riguardante il tuo progetto parallelo, i Liquid Tension Experiment?
No, nulla. Abbiamo fatto due CD e per il momento non stiamo pensando ad un nuovo lavoro.

(Laura Ghellere)

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