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La più black delle cantanti inglesi si racconta...

La cascata di capelli rossi, che il contrasto con il pallore britannico del viso rende ancora più fiammeggiante, risulta familiare a prima vista. La risata contagiosa e la “presenza” fisica incapaci di passare inosservate, anche. In un hotel milanese dove soggiorna durante il tour promozionale di “August”, Sarah Jane Morris, la più “black” delle cantanti inglesi, spiega, racconta, divaga come un fiume in piena. Di come si senta felice e realizzata nella nuova veste di artista autoprodotta, libera dalle pressioni delle case discografiche. Di come il figlio Otis (l’omaggio è esplicito…) assorba gran parte delle sue energie quotidiane, ma non abbastanza da toglierle la voglia di cantare dal vivo e di incidere dischi. Di come si sia rigenerata dopo la scelta di vita che l’ha portata, insieme con il marito (e musicista) David Coulter, ad abbandonare Londra per Walton, un minuscolo fazzoletto di dodici case immerse nella campagna del Warwickshire. Di come, soprattutto, sia eccitata dai suoi nuovi progetti discografici: “August”, appunto, inciso in coppia con il “soul brother” e pregiatissimo chitarrista Marc Ribot. E “Love and pain”, il disco successivo che ha già mixato a Firenze. Tanto per ribadire che con l’Italia Sarah conserva un rapporto speciale, fin dai tempi dei festival di Sanremo di una decina d’anni fa. Ma quella era davvero un’altra storia…

Parliamo subito di “August”. Non è la prima volta che tu e Marc Ribot vi trovate a collaborare, ma questo album in duo è stato una sorpresa per molti.
Mio marito suonava nei Pogues, che erano la band preferita di Tom Waits; a sua volta, Waits è l’autore di canzoni che io e David amiamo di più. Insomma, eravamo sicuri che prima o poi saremmo entrati in contatto, in qualche modo. Ho sognato che Tom avrebbe scritto tutte le canzoni del mio nuovo album: non è andata proprio così, ma un po’ per volta, partecipando ai vari festival in giro per il mondo, abbiamo cominciato a conoscere i suoi musicisti, prima Greg Cohen, poi Michael Blair e infine Marc. Quando ho incontrato Ribot, ho poi scoperto che si è fatto le ossa suonando con Wilson Pickett: bene, mi sono detta, Marc è un “soul boy”, e io sono sempre stata una “soul girl”, quindi abbiamo un percorso comune alle spalle. Guardandolo sul palco, osservando il modo in cui usa i pedali della chitarra e ama perdersi dentro la sua musica, mi sono rivista allo specchio. Avevo chiesto a Marc di partecipare alle session dell’album “Fallen angel” e alla mia casa discografica, la Irma, l’idea era piaciuta. Le cose erano andate bene e ci eravamo detti che sarebbe stato bello, un giorno, fare un album in duo che ci permettesse di esplorare la combinazione sonora tra la mia voce e la sua chitarra. E’ una di quelle cose che normalmente non rientrano nei progetti dei manager e delle case discografiche, perché nell’ambiente Marc è considerato un po’ come un musicista d’avanguardia, e che dunque non fa vendere molti dischi. Coincidenza ha voluto che una settimana prima che lui mi chiamasse il mio management dichiarasse bancarotta mettendomi in un grosso guaio finanziario. Mi era già successo in passato e mi sono detta che questa volta ne avevo davvero abbastanza: così ho deciso che li avrei portati in tribunale, a costo di perdere un sacco di tempo e di denaro. E’ stata una decisione difficile ma che ha rinforzato la fiducia in me stessa. Proprio in quel momento arriva la telefonata di Marc, che mi dice che sta per venire in Inghilterra per il funerale di sua suocera e che si tratterrà quattro giorni. Ci viene in mente che forse è l’occasione che aspettavamo. Era un venerdì e avremmo dovuto iniziare a registrare il lunedì successivo: dunque avevo appena due giorni di tempo per trovare uno studio, il denaro necessario a finanziare le registrazioni e il materiale da incidere. Avevo un sacco di canzoni già pronte, ma quelle erano destinate a un disco successivo. Così, con mio marito abbiamo cominciato a passare al setaccio tutta la nostra collezione di album: scelti i dischi, li abbiamo cacciati in una borsa e ci siamo diretti a Londra. Una volta arrivato Marc, ancora confuso dal jet lag e sconvolto dal funerale, gli abbiamo fatto sentire i pezzi che avevamo selezionato: se gli piacevano, lui si appuntava la sequenza degli accordi mentre io mi mettevo a trascrivere i testi. Poi, di corsa a registrare, senza prove. In pezzi come “Move on up” Marc ha suonato tre chitarre sovraincise, mentre io cantavo la linea melodica in diretta su una parte di chitarra e le armonie di backing vocals su un’altra: anche in quel caso, dunque, si è trattato sostanzialmente di una registrazione live. La storia di “Piece of my heart” è diversa: l’autore della canzone, Jerry Ragovoy, mi aveva detto che sul palco gli ricordavo Janis Joplin, e che di conseguenza sarei stata la persona giusta per interpretare la sua parte in un film biografico. Alla fine però la produzione ha optato per Britney Spears e il progetto – c’era da aspettarselo – è naufragato! Quando io e Marc abbiamo ripreso in mano la canzone eravamo ben coscienti del fatto che la versione definitiva di “Piece of my heart” appartiene a Janis, e quindi abbiamo deciso di cambiarne completamente lo stile facendone una versione reggae: abbiamo usato il mio Casio come guida ritmica per il pezzo pensando di eliminare la traccia in un secondo momento ma, riascoltandolo, il suono della drum machine era così meravigliosamente kitsch che abbiamo deciso di tenerlo. Marc ci ha aggiunto una linea di basso in stile cubano, e il pezzo era pronto. Non ho cambiato il senso della canzone, l’ho solo resa un po’ più ironica.

Anche Billie Holiday e Otis Redding sono personaggi che potrebbero mettere in soggezione chiunque…
“Don’t explain” è venuta fuori per caso. Era l’ultima notte di registrazione, e Marc mi convinse a interpretare una canzone a cappella. Cambiata la disposizione dei microfoni, cominciai a cantare pensando di fare un semplice soundcheck. La mia idea era di incidere “First time ever I saw your face” di Ewan MacColl, così ho attaccato il pezzo di Billie Holiday senza immaginare neppure lontanamente che Marc mi stesse registrando. Mentre intonavo l’ultima nota l’ho visto correre nell’altra stanza, prendere la chitarra e mettersi a suonare, per reazione spontanea a quello che avevo appena cantato: è stato un momento davvero magico. Otis Redding? Beh, è sempre stato uno dei miei idoli e non per niente ho dato il suo nome a mio figlio. Ancora una volta, non avrebbe avuto senso cercare di rivaleggiare con la sua versione di “Try a little tenderness”: così l’abbiamo spogliata facendola diventare una sorta di ballata jazz. “You can’t wrap your arms around a memory” di Johnny Thunders, invece, è stata l’unica scelta suggerita da Marc, che da giovane era stato un grande fan del punk rock. Io non l’avevo mai sentita prima. Siamo corsi da Honest John, il negozio di dischi che sta dall’altra parte della strada, in Portobello Road, a comperare il Cd. L’ho fatta di getto, come me la sentivo: alla fine Marc aveva le lacrime agli occhi e credo che ne sia venuta fuori un’ottima interpretazione.

Il disco spazia attraverso i generi più disparati: dal Philly sound al soul anni ‘60, dalle torch songs alla canzone d’autore. C’è un filo comune che lega momenti così diversi?
Credo ci sia un percorso, che parte dal suono acustico per approdare a una specie di follia sonora: esattamente l’inverso di quello che accadeva nel mio album precedente, “Fallen angel”. Il primo pezzo in assoluto è stato “Don’t leave me this way”, una canzone che per molto tempo avevo voluto mettere a riposo. Riascoltandola e trascrivendo il testo della versione originale mi sono accorta che con i Communards non avevamo mai cantato i versi giusti. “I am a broken woman/I’m with these empty hands/I’m beggin’ you/I’m beggin’ you”…: di colpo ha acquistato un significato completamente diverso. E’ una versione totalmente differente dalle altre in circolazione: finalmente me ne sono riappropriata.

“Into my arms“ di Nick Cave, invece, è l’unica canzone recente del mazzo. Perché?
Sono sempre stata una sua fan, anche se non mi piace molto il tipo di pubblico che si porta dietro dai tempi dei Bad Seeds. Come autore di canzoni e come cantante, però, lo adoro. Forse non avevo mai cantato in una tonalità così bassa, ma è stata una bella sfida ed è andata bene: è il mio pezzo preferito del disco. Un’altra delle cose che spero di realizzare grazie a questo album è che qualcuno dei miei autori preferiti, come Nick e Leonard Cohen, decida magari di scrivermi una canzone per un mio prossimo disco. Mi sembra di essere all’inizio di un nuovo viaggio...

Ribot è rinomato per i suoi arrangiamenti inconsueti e per il modo poco ortodosso con cui affronta l’esecuzione: penso, in questo disco, alla chitarra distorta di “Whatever gets you through the night” o alla “sega musicale” che rende così particolare l’atmosfera di “Mercy mercy me”…Non ti sei mai sentita spiazzata dal suo modo di suonare?
No, credo anzi che ognuno di noi sia riuscito a far emergere il lato nascosto dell’altro. Penso di essere riuscita a tirar fuori le radici soul e R&B che affiorano solo raramente nella musica di Marc: è da lì, per esempio, che proviene quel fantastico tocco percussivo su “Move on up”. “Mercy mercy me” è l’altra mia canzone preferita del disco. Quando è stato il momento di mixare l’album ho chiamato il mio sassofonista chiedendogli di suonare una parte alla Eric Dolphy, mentre mio marito ha suonato la “sega musicale”. Nello spettro sonoro della canzone mi sembrava ci volesse un suono molto acuto, quasi si trattasse di un pianto. E credo che proprio quello strumento sia ciò che alla fine rende veramente particolare questa versione.

E poi c’è una tua canzone inedita, “Blind old friends”…
E’ stato Marc a volerla. L’avevo appena scritta per il mio prossimo album e gli ho fatto ascoltare un provino: gli è piaciuta così tanto che ha voluto inciderne subito una versione. Il mio batterista aveva costruito un loop basato sul suono del bodhran, la percussione irlandese. Lo abbiamo campionato dal demo, Marc ci ha sovrainciso degli effetti e una chitarra acustica e io l’ho ricantata. Sarà anche sul prossimo disco ma in una veste completamente diversa, quasi alla Soul II Soul. L’album è già pronto, l’ho mixato a Firenze con Lorenzo Tommasini, un ingegnere del suono che lavora da qualche tempo con Hector Zazou. Si intitola “Love and pain”, ho scritto tutte le canzoni con il mio batterista, Martyn Barker, e con Callum MacColl. Loro vivono a Londra, mentre io sto a due ore di distanza. Tutti e tre abbiamo dei figli, e quindi potevamo vederci soltanto una volta al mese: io prendevo il treno, scrivevo le canzoni durante il viaggio e nel tragitto tra il metro e il garage che utilizzavamo come studio mettevo giù le melodie. Quando arrivavo in studio, Martyn mi faceva sentire i loop che aveva costruito usando il bodhran, il derrabuka e il djembe: tutte le ritmiche del disco nascono da questi tre strumenti, trattati elettronicamente. Mentre scrivevo le canzoni non avevo nessuna idea precisa al riguardo, ma dopo averne riascoltate tre o quattro in sequenza ci siamo accorti che ognuna rifletteva un aspetto di me, come donna, e delle mie contraddizioni. Ecco, se c’è un tema del disco questo sta nella celebrazione delle contraddizioni umane. La cosa curiosa è che “Love and pain” è probabilmente il disco più commerciale che abbia mai fatto, ed è venuto fuori così senza alcuna intenzione. E’ un album dai suoni particolari, certo, ma è totalmente fondato sul groove e quindi anche facilmente remixabile; allo stesso tempo è molto melodico e costruito sulle canzoni.

Che ne pensi delle nuove stelle dell’R&B americano? Macy Gray, Angie Stone, Jill Scott e le altre?
Sono in gamba, ma non meritano il piedestallo su cui l’industria le ha collocate per necessità. Macy Gray, per esempio, ha questa voce “stagionata” che per certi versi è avvicinabile alla mia, tanto che chi non mi conosce e mi vede dal vivo per la prima volta mi fa spesso notare la somiglianza. Il problema è che non si discosta mai da quel timbro, mentre quello che io cerco di evitare, come cantante, è proprio di trovare un clichè e ripeterlo all’infinito. Succede lo stesso con i Lighthouse Family, rifanno sempre la stessa canzone: stesso registro di voce, stessa tonalità, cambiano solo le parole. Se devo indicare una musicista giovane che mi piace, allora dico Me’Shell NdegèOcello: come bassista surclassa quasi tutti i colleghi in circolazione e scrive bellissime composizioni, non vende moltissimo ma tutti i musicisti la apprezzano. L’industria, comunque, sta cambiando: la resa dei conti è arrivata, e si chiama Internet: grazie al Web, artisti come me possono permettersi di uscire dal giro delle major senza per questo scomparire e dover masticare amaro per il resto dei loro giorni. Con Internet puoi scegliere che strada percorrere, decidere quanto devi spendere per recuperare l’investimento che hai fatto: tutto diventa più realistico, possibile. Mariah Carey e Whitney Houston sentono addosso la pressione di dover vendere milioni di copie perché su di loro vengono spesi milioni di dollari. Ma non sei costretto a seguire per forza quella strada, anche 10 mila copie possono rappresentare un successo. Mi sembrano tempi interessanti, questi, le major stanno perdendo la presa sul mercato.

Che ricordo hai della tua partecipazione al Festival di Sanremo?
E’ un evento enorme, un grande business…ed è una idea giusta quella di celebrare la canzone e la melodia italiana. Ricordo che cantare con Riccardo Cocciante e con l’orchestra fu una bellissima esperienza. Ci rimasi veramente male, però, quando vidi che tutte le lodi e tutti i premi erano per lui, che la mia presenza era quasi considerata superflua. Finii a piangere nei camerini. Ma anche quella è un’esperienza che mi è servita.

Ho sentito raccontare che alla vigilia dell’11 settembre eri a New York per un concerto…
E’ vero, avevo suonato con Marc la sera prima al Tonic club. La mattina dell’11 ho preso uno degli ultimi aerei in partenza, senza immaginare che la New York che mi stavo lasciando alle spalle sarebbe scomparsa per sempre.

Ti ha cambiato, come artista, quella tragedia?
Dopo essere stata un’attivista convinta, per gran parte degli anni ’90 mi ero sentita totalmente disillusa dalla politica. Avevo votato un governo che pensavo avrebbe cambiato le cose, e sappiamo com’è andata a finire. A metà del decennio ho avuto un figlio, e il mio bambino è diventato la cosa più importante per me. D’altra parte non c’era neanche più nulla per cui lottare: negli anni ’80 avevamo la Thatcher come nemico comune e da quell’antagonismo sono nati un sacco di eventi interessanti, di iniziative positive. Oggi mio marito tiene un corso di musica popolare nelle scuole per i ragazzi di 17-18 anni: sono i figli della Thatcher e nelle loro teste non c’è la minima coscienza politica, mentre ricordo che a quell’età io volevo sfidare qualunque istituzione. Dopo l’11 settembre ho di nuovo sentito il desiderio di informarmi, di leggere i giornali per sapere che cosa sta succedendo. Uno dei motivi per cui voglio aggiornare il mio sito Web è perché desidero avere una pagina riservata alla discussione, al confronto con il mio pubblico. Non è che pensi di poter cambiare veramente qualcosa. Ma voglio tornare a far parte del mondo che mi circonda.

(Alfredo Marziano)

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