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Sanremo, il nuovo disco, la nuova etichetta: Daniele si racconta a Rockol...

Unò, dué, unò, duè: Daniele Silvestri è tornato a tempo di marcia, con un nuovo disco, il quinto della sua quasi decennale carriera musicale. Ha scelto di presentarlo al Festival di Sanremo, ma quasi “per abitudine”, come ci ha spiegato, e per imporsi un termine ad un lavoro durato a lungo e nel corso del quale sono accaduti eventi tragici (la morte del padre) e bellissimi (la notizia di un figlio in arrivo.
Daniele, in questa chiacchierata, racconta inevitabilmente Sanremo, ma anche la politica e la passione che animano le nuove canzoni, l’esperienza della nuova etichetta, la Panama, fondata insieme all’amico e collaboratore di sempre Enzo Miceli.
Guarda la videointervista a Daniele su http://streaming.rockol.it


In questo periodo si parla soprattutto di Sanremo, per cui togliamoci il dente ed il dolore subito, così poi parliamo d’altro: come mai hai deciso di tornare al Festival per la terza volta?
Uno si affeziona alle abitudini... L’ultimo anno è stato complicato per la mia vita e, per i noti e tristi eventi, per quella di tutti. Personalmente ci sono stati alcuni fatti che mi hanno segnato profondamente e dopo alcuni mesi molto complessi, in cui tra l’altro ho scritto qualcosa come 35 canzoni, sono arrivato al punto di tirare le somme. Mi serviva una scossa adrenalinica, una data precisa per concludere tutto questo lavoro. Sanremo era l’occasione perfetta. Anche perché quando accetti di andare ti fanno firmare un contratto e non ti puoi più tirare indietro… Sennò avrei finito con il rinviare ancora l’uscita di questo disco, che alla fine è ciò che mi interessa davvero…

Tra tutti i brani che hai scritto in questo periodo, come hai scelto “Salirò” per il Festival?
E’ stata una scelta estremamente semplice. Nel disco non c’è comunque un pezzo Sanremese e spero che non ci sarà mai nei miei album, perché non scrivo canzoni pensando al Festival… Se avessi voluto seguire la strada fin qui percorsa, che mi aveva visto andare al Festival con brani seriosi e impegnati come “L’uomo col megafono” e “Aria”, probabilmente avrei scelto un’altra canzone, magari “Il mio nemico”, che è probabilmente la canzone più politica che abbia mai scritto. “Il mio nemico” è talmente attuale che poteva sembrare un pretesto portarla a Sanremo, avrei finito soltanto per sporcarla, per così dirla. Però avevo deciso di seguire un’altra strada, quella di presentare una canzone che potesse essere suonata bene con l’orchestra, e che avesse un testo che rappresentasse il momento che sto vivendo. “Salirò”, con il suo testo se vogliamo un po’ surreale e leggero, esprime bene la mia voglia di uscire da un periodo difficile, rialzarmi, di sorridere.

Nel tuo nuovo disco c’è parecchia politica… Quanto hanno influito gli eventi di attualità nel questa connotazione a diversi brani del disco?
Hanno influito tantissimo. Una canzone come “Il mio nemico” è figlia degli eventi: l’ho scritta dopo Genova, ho continuato a lavorarci quando è scoppiata la guerra. Il confronto con l’attualità è stato costante, più che in passato perché credo che più che in passato ci sia la necessità di riflettere, di essere sinceri, di raccontare quello che davvero ci sta a cuore, sia in una dimensione collettiva che in una personale. Cerco di far convivere questi due aspetti nelle mie canzoni; era naturale che quello più rivolto verso l’esterno prendesse il sopravvento in certi momenti. C’è una canzone che si chiama “Manifesto” che ho iniziato a scrivere due anni fa. Allora l’idea di trovarsi insieme, prendere un megafono in mano e protestare sembrava fuori dal tempo. Adesso scendere in piazza è una questione di attualità, persino troppo…

Nel disco c’è anche una forte dimensione personale, riassunta da una canzone come “Di padre in figlio”, che sembra un ponte tra due momenti per te molto importanti: la recente scomparsa di tuo padre e la prossima nascita di tuo figlio.
In realtà ho scritto questa canzone un mese prima di sapere che sarei diventato padre. L’ho scritta così com’è, e non l’ho più modificata. Forse il desiderio di diventare padre era forte, e non c’è dubbio che tutto questo non poteva capitare in un momento migliore: la nascita di un figlio ti riconcilia con la vita, ti dà uno scopo e un’energia che mi erano venuti a mancare. Quando è mancato mio padre è stato brutto, come può immaginare chiunque; ma io ero davvero innamorato di mio padre, lo consideravo e lo considero una fortuna piovuta dal cielo, qualcosa di irripetibile che auguro a chiunque, ma che so che è rara. Questa canzone, così, è una sorta di passaggio di consegne, quello che penso che mio padre abbia sempre pensato nei miei confronti e che vorrei riuscire a mio figlio.

Il titolo del disco, “Unò, dué”, sa molto di marcetta… come l’hai scelto?
I titoli sono un terreno in cui è difficile essere sicuri e decisi. Comunque sono contento di avere scelto questo perché ha almeno due significati nei quali mi ritrovo. Il primo riguarda la canzone, che ha l’atmosfera di una marcia, più poetica che politica, e dà l’idea di un gruppo di persone che procede assieme nella stessa direzione: è un bisogno che ho e che attraversa tutto il disco. Il secondo significato è quello che rimanda ad una mia duplicità, che è reale. Sono sempre un po’ diviso nelle cose scrivo, diviso tra una dimensione più personale ed una più collettiva e politica. Quest’ultimo significato ho scelto di raffigurarlo anche in copertina, in cui ci sono dei miei “doppi” che rappresentano le mie due facce.

“Unò, dué” ha anche un significato ritmico che rappresenta alla perfezione la scelta di usare molta elettronica nelle canzoni…
Come spesso mi accade ci sono delle cose che ascolto che influenzano i miei dischi. In questo periodo ho consumato soprattutto “Buena Vista Social Club”, ma anche un gruppo come gli Orishas, che nascono dalla stessa cultura cubana, però con un uso dell’elettronica molto particolare. Di loro mi è piaciuto l’atteggiamento, che ho cercato di mettere in pratica nel disco: quello di mettere assieme un senso della canzone tradizionale con un uso delle ritmiche particolare e con strumenti suonati davvero. Devo anche dire che ho fatto gran parte del lavoro al disco a casa mia, con i miei strumenti, e questo ha condizionato molto il risultato. Però, per una volta, ho seguito fino in fondo l’idea iniziale del disco, a differenza di quello che mi è capitato altre volte.

Nel disco ci sono due collaborazioni: una con Faso, il bassista delle Storie Tese, l’altra con Mauro Pagani. Come sono nate?
La collaborazione con Faso è stata una precisa decisione. In realtà con lui avevo già lavorato nel mio primo disco, poi abbiamo continuato a frequentarci. Siccome in questo album c’è un bel po’ di funky, e siccome sono convinto che Faso sia uno dei più bravi a suonare funky in Italia, mi sembrava inevitabile chiamarlo. Ha accettato, si è divertito ed ha suonato benissimo.
Quella con Pagani è stata invece una cosa inattesa e improvvisa: siamo andati a mixare il disco nei suoi studi a Milano. In una canzone, “L’autostrada” c’era un violino sintetico, molto finto, fatto con una tastiera. Mentre mixavamo la canzone pensavo tra me e me che un bel violino vero ci sarebbe stato proprio bene… E’ passato Pagani e non ho resistito alla tentazione di chiedergli di suonare. E’ stato un bel regalo che gentilmente mi ha concesso, suonando in maniera strepitosa.

Questo disco segna anche l’esordio della tua etichetta, la Panama, per la Sony… Cosa ti aspetti da questa nuova fase della tua carriera discografica?
Mi aspetto molto, ma allo stesso tempo molto poco. Comunque il mio lavoro è di scrivere canzoni; non voglio dire che il resto conta poco, perché non è così, però… Sono anche contento di cambiare, di trovare nuovi entusiasmi, e qua alla Sony di entusiasmo ne ho trovato parecchio… Il fatto di arrivarci attraverso la fondazione di un’etichetta, la Panama che abbiamo messo in piedi io e il mio produttore Enzo miceli, ti dà più responsabilità che libertà…

Come la possibilità di investire su nuovi talenti…
Certamente anche quello. Abbiamo appena iniziato per cui è ancora tutto da dimostrare: dobbiamo far sì che questa etichetta permetta di fare crescere artisticamente della carriere, e in questo sfruttare un po’ delle esperienze fatte in questi anni, con calma e senza fretta. Non per ambizione sfrenata ma per una sorta di senso di dovere.

La prima uscita della tua nuova etichetta sono i Giuliodorme, anche loro presenti a Sanremo…
Con loro la collaborazione è in atto da tempo, avevano già fatto un disco per la BMG, prodotto da Enzo Miceli e al quale avevo partecipato anch’io. Per fortuna hanno fatto anche un gran bel disco, per cui partiamo bene. Speriamo ne vengano anche altri…

(Gianni Sibilla)

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