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«FURÈSTA - La Niña» la recensione di Rockol

La Niña, tra tradizione e modernità

Il secondo album della cantautrice napoletana rielabora e attualizza la musica popolare partenopea

Recensione del 22 apr 2025 a cura di Luca Trambusti

Voto 7/10

La recensione

Ci vuole coraggio e soprattutto tanta bravura, per prendere la tradizione partenopea, farla propria, portarla al tempo moderno e rimettere tutto questo lavoro di rielaborazione in un disco potente come “Furèsta”. Nel farlo la napoletana La Niña (all’anagrafe Carola Moccia) non ha avuto paura e in maniera quasi sfrontata ha messo al suo servizio tutta la tradizione della musica popolare partenopea, contaminandola, masticandola ma soprattutto plasmandola con la modernità e restituendo un prodotto nuovo, originale composto da 10 tracce che sanno di visceralità, di emozioni e passione, tutte cantate in napoletano.

La direzione del disco (il suo secondo lavoro) la si percepisce da subito, con il brano di apertura, segnato dal ritmo delle tammorre, che ci portano con la mente alle tarantelle (ma quelle popolari, non da stereotipata cartolina napoletana) e a cui si uniscono violini, mandolini e nacchere in un contesto festoso. Con “Guapparia” (un titolo che rimanda a Mario Merola) i più attenti (e forse i più “boomers”) penseranno inevitabilmente alla lezione della Nuova Compagnia di Canto Popolare (NCCP) e al grande lavoro di divulgazione della musica tradizionale napoletana/campana fata da quel collettivo di musicisti. Ci si rende subito conto anche della centralità della voce de La Niña… e non è poca roba.

Geniale la successiva “O ballo d' 'e 'mpennate” la cui base ritmica è costituita sul campionamento del suono degli zoccoli dei cavalli. Anche qui a dominare è il ritmo, in un brano viscerale e caldo. Ancora più emotiva è la terza traccia “Ah!” dove invece comanda la melodia nell’unico brano “direttamente” d’amore, della drammaticità di una storia finita male. Passionale e corale con la chitarra acustica a dominare il suono.

Se nel brano iniziale si “notava” la NCCP, “Oiné” ne è quasi un omaggio con una visione molto moderna di quello stile. Anche qui è il ritmo a dominare su una storia (un gatto che scaccia il serpente a male parole dal suo territorio) che sa tantissimo di tradizione napoletana. Altra sorpresa arriva con “Tremm” (il primo brano composto per questo disco come l’autrice ci ha spiegato in un’intervista). È una canzone “onomatopeica” che in effetti rimanda all’idea del terremoto, per ritmica e atmosfere e la cui ispirazione arriva proprio dal bradisismo dei Campi Flegrei. Altra sorpresa: sbuca fuori, quando non te l’aspetti, l’autotune!!! Ad arricchire questa commistione tra tradizione e modernità contribuisce anche il feat di Kuki, un’artista di origini egiziane. È un brano di grande potenza.

Chiena ‘e scippe” parla della nostalgia dell’infanzia e questo stato nostalgico per il ricordo e l’emozione dell’infanzia viene plasticamente reso nell’andamento della canzone, nella sua struttura che alterna momenti più malinconici ad altri più gioiosi. Se da subito si nota la centralità della voce, questa si fa evidente e comanda in “Mammama”, un brano interamente a cappella dove Carola gioca di rimpallo con un altro coro femminile. Anche la successiva “Figlia d’ ‘a Tempesta” inizia a cappella per poi lasciare spazio ad un gioioso ritmo, per una canzone manifesto dell’empowerment femminile, un argomento che porta visceralità e dove strumenti della tradizione si uniscono a scelte elettroniche e nuovamente appare l’autotune. Tra le cose migliori del disco (anche se è difficile identificare “il meglio” essendoci una media elevatissima).

Cambio di atmosfera con “Sanghe”, lenta, avvolgente, quasi sacrale su due voci, quelle della protagonista affiancata ad Abdullah Miniawy (un cantante egiziano trasferitosi a Parigi durante le primavere arabe). Su questa grande atmosfera l’unione tra il napoletano e l’arabo è spettacolare e porta Napoli ad allungarsi sino a congiungersi con il Maghreb. Il viaggio migratorio si svolge su un’intensa e rarefatta base elettronica con evidenti richiami arabi. “Pica Pica” (ovvero il nome scientifico della gazza) continua sul solco del precedente brano, con suoni minimali, intensi e a tratti melodiosi in cui nuovamente è la voce a essere la protagonista assoluta del brano che si conclude con un crescendo, per poi lasciare che sia l’inconfondibile verso della gazza a mettere il sigillo finale. Disco intenso, coraggioso, moderno pur legato alla tradizione. Da ascoltare sicuramente più e più volte.

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