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Sono 'bohemienne come te', come recita la canzone che li ha resi famosi grazie ad uno spot. Il gruppo di Portland torna con un nuovo album, 'Welcome to the monkey house'...

Tra “Thirteen tales from urban Bohemia” e “Welcome to the monkey house”, nuovo album in uscita a maggio dei Dandy Warhols, ci corrono quasi tre anni e un trillo insistente di telefonino. La campagna-monstre di Vodafone/Omnitel, che ha scelto i coretti alla Stones di “Bohemian like you” come commento sonoro ad un onnipresente spot televisivo, li ha portati subliminalmente nelle orecchie delle masse, regalando loro un – quantomai warholiano – quarto d’ora di (grande) celebrità. Gli art-rockers di Portland (Oregon) hanno ringraziato, si sono attrezzati una “sala giochi”- studio di registrazione casalingo (battezzato Odditorium) e si sono rituffati caparbiamente all’inseguimento del loro ideale estetico-musicale, raffinato, trendy e memore assai delle lezioni del passato. Molti dei loro maestri di pensiero rispuntano tra le tracce sonore e nei simboli iconografici del nuovo disco. Alle session, oltre al quasi contemporaneo Evan Dando, hanno partecipato lo Chic Nile Rodgers, il produttore bowiano Tony Visconti e persino la metà dei Duran Duran originali, Simon LeBon e Nick Rhodes (quest’ultimo arruolato in cabina di regia). E in copertina, una clamorosa e maliziosa banana sbucciabile corredata di zip, opera dell’artista post-pop Ron English, celebra come meglio non si potrebbe l’epopea ruggente dei Velvet, degli Stones e della Factory di Andy (Warhol). Courtney Taylor-Taylor (voce e chitarre, taglio mohicano) e Brent DeBoer (batteria, capelli a cespuglio) raccolgono il testimone e raccontano le loro strategie per entrare nell’immaginario pop dei nostri giorni.


Agli occhi di un turista, Portland sembra una città decisamente bohemienne. E anche molto intellettuale, con tutte quelle librerie, caffè e ritrovi culturali. Cosa ha significato per voi crescere in un posto come quello?
(Brent) E’ anche una città piena di reduci del Vietnam che si trascinano per le strade… Ce n’è uno vestito come Elvis, che se ne va in giro suonando una chitarra di cartone.
(Courtney) Portland è un po’ la versione scura e piovosa di Venice Beach.
(Brent) Ma è anche uno dei luoghi più accoglienti, in America, per gli homeless. Il clima stesso aiuta perché non è mai estremo, né troppo caldo né troppo freddo. La pioggia favorisce anche l’interattività e le relazioni tra le persone: si legge, si fanno giochi di società, si va alle feste. E si beve, molto.

Sembrerebbe un ambiente confortevole per un artista…
(Courtney) Sì. La scena musicale in città è piuttosto vivace.

La copertina del nuovo disco è un omaggio esplicito ai vostri “totem” culturali o c’è anche un fondo di autoironia, una piccola presa in giro delle etichette che vi sono state appiccicate dalla critica?
(Brent) Sì, c’è anche questo aspetto… La busta del disco l’ha dipinta apposta per noi Ron English. Ci ha lusingato il fatto che quando gli hanno chiesto per quali gruppi rock avrebbe voluto lavorare abbia subito fatto il nostro nome. La cover, che rievoca le copertine realizzate da Andy Warhol per il primo album dei Velvet Underground e per “Sticky fingers” dei Rolling Stones, è stata un’idea sua. Il fatto che si tratti proprio delle band a cui veniamo più spesso associati rende il tutto ancora più interessante.

Conoscevate già l’opera di English?
(Brent) No, è stato qualcuno della casa discografica o del nostro management a metterci in contatto. Ci trovavamo a New York e lui ci ha telefonato, proponendoci un’uscita insieme.

Anche il titolo del disco, “Welcome to the monkey house”, contiene una citazione: il titolo è lo stesso di un libro di racconti brevi di Kurt Vonnegut Jr.
(Courtney) Il concetto di base è che il nostro pianeta diventa di giorno in giorno più simile ad una gabbia di scimmie. Mi sembra che le persone si comportino sempre più come dei primati, particolarmente quelle che gestiscono il potere. Non c’è molta gente che sembra guardare lontano, in giro, e il tasso di follia generale è in aumento.

Su questi argomenti, e su temi come la guerra, molti vostri colleghi hanno sentito ultimamente il bisogno di fare pubbliche dichiarazioni…
(Brent) Molte delle persone che conosciamo, e probabilmente anche quelle che conosci tu, pensano che non si dovrebbe andare in giro ad uccidere il prossimo…
(Courtney) Però io sono convinto che esprimere verbalmente e chiaramente il proprio punto di vista sia molto più utile che servirsi della musica per affrontare il tema. “Sunday bloody Sunday” non ha aiutato a risolvere la questione irlandese. E Malcolm X non ha mai scritto una canzone. Parlare chiaramente al maggior numero possibile di persone, soprattutto nell’ambito della propria comunità, è la cosa più importante. La musica, per contro, tende ad essere una forma d’espressione astratta ed emotiva: e sembra che non riesca mai a comunicare il nocciolo e la profondità dei problemi. Neppure Mozart poteva farlo…
(Brent) Dylan ci ha provato con “Masters of war”, la più dura canzone contro la guerra che sia mai stata scritta, credo: quasi uno “spoken word”, espresso in un inglese molto semplice e diretto.

Torniamo al disco: lo avete inciso nel vostro studio di registrazione, il che deve avere facilitato le cose…
(Brent) Certo, significa che possiamo lavorare quando ne abbiamo voglia. E che quando comincio a diventare nervoso e insopportabile per chi mi sta intorno, semplicemente stacco e me ne vado a casa a dormire.
(Courtney) E’ un bel vantaggio, decidere di scendere in studio quando ti salta in mente, per restarci un’ora o magari una settimana intera. Credo proprio che costruirsi un proprio studio di registrazione sia la cosa migliore da fare, per un musicista.

Qualcuno, ascoltando il nuovo album, si è chiesto: dove sono finite le chitarre?
(Courtney) Ci sono ancora: su “We used to be friends”. Stavolta, nelle canzoni, abbiamo voluto sperimentare con gli spazi, le trame, le dimensioni. Non avevamo mai registrato prima un disco che avesse così tanto spazio vuoto tra uno strumento e l’altro. Di solito riempivamo tutte le 14 tracce con le chitarre…
(Brent) Stavolta il suono è più vicino a certi dischi hip-hop.

L’ultima canzone in scaletta, “You come in burned”, è un buon esempio: tutta giocata su elettronica e percussioni. Può essere una traccia per il futuro?
(Courtney) E chi può dirlo? Passerà un paio d’anni, prima che esca un nuovo disco: allora avremo un mazzo di canzoni nuove, altre esperienze alle spalle, musiche diverse nelle orecchie.

“Insincere because I” spicca per le sue armonie vocali. …
(Courtney) Ricorda molto certe cose del nostro primo disco “indipendente”, “Dandys rule ok”. Qualcosa di simile lo hanno fatto gli Spiritualized con “Lazer guided melodies”.

In altri momenti, soprattutto in “You were the last high”, il richiamo a David Bowie sembra piuttosto evidente. Mentre il pezzo prodotto da Tony Visconti sembra piuttosto un omaggio ai T.Rex.
(Courtney) Beh, siamo tutti fan di Bowie… (Brent) Quanto a “Hit rock bottom”, quella era una canzone che suonavamo già da parecchio tempo nei soundcheck, ancora prima che avesse delle parole: era una sorta di esercitazione su un riff blues…
(Courtney) Con Visconti avevamo già collaborato per una cover (“Ohio” di Neil Young) , e stavamo cercando l’occasione giusta per tornare in studio con lui: lui ha anche cantato su “Hit rock bottom”, come faceva sui dischi dei T. Rex.

La presenza più significativa in sede di produzione, però, è quella di Nick Rhodes. Come siete entrati in contatto?
(Brent) Gothman, il nostro video-maker e tuttofare, ci aveva procurato i vecchi clip dei Duran Duran, ed è saltato fuori che Nick era uno nostro fan e che il responsabile artistico della casa discografica aveva la possibilità di metterci in contatto con lui. Siamo andati a cena insieme, abbiamo chiacchierato e ci siamo fatti una bevuta: abbiamo capito che, musicalmente, da lui c’era molto da imparare.
(Courtney) Nick si è rivelato essere una persona molto piacevole e intelligente, rilassata e divertente. E’ stato facile lavorare insieme.
(Brent) Prima che intervenisse lui, avevamo accumulato tracce registrate per quasi un anno. Rhodes ci ha messo la sua visione delle cose e ci ha aiutati a togliere di mezzo il superfluo. Ma come sempre i nostri dischi sono il risultato di un processo interattivo tra tutti i componenti della band e le altre persone che lavorano con noi.
(Courtney) Avevamo messo giù qualche traccia per voce e percussioni. La cosa migliore da fare, per me, è registrare in autonomia e poi chiamare qualcuno che si stima a dare il tocco finale. Oggi tutti riscoprono gli anni ’80 e gente come Gary Numan, ma nessuno è ancora riuscito a riprodurre il suono del primo album dei Duran Duran. In America sono diventati popolari con “Rio” e i dischi successivi, ma per me è il primo album quello che ha veramente creato uno stile e aperto territori inesplorati. Gli album successivi sono molto più levigati, ma il loro esordio suona ancora sporco, sexy e perfettamente compiuto.

E le band di oggi, vi piacciono? Ascoltate anche White Stripes e Strokes?
(Brent) Dio benedica i White Stripes. E anche gli Strokes ci piacciono molto. Ci sono buone band in giro: gli Shin, Brian Jonestown Massacre. E 50 Cent è un grande vocalist.

TV, cinema, pubblicità: tutti sembrano essersi accorti di voi…
(Courtney) Già, sembra che la nostra musica piaccia ai registi. Concordo con chi ritiene che i nostri dischi abbiano un qualcosa di cinematografico, è sempre stato un elemento importante della nostra musica. Ci è anche stato chiesto di scrivere qualcosa di specifico, ma finora non ha mai funzionato. Personalmente, non posso scrivere a comando. Sono le canzoni che usano me come veicolo di espressione, non sono in grado di controllare i tempi del processo creativo. Così è più facile che qualcuno scelga i pezzi che preferisce dai dischi che sono già in commercio.
(Brent) Però ci piacerebbe comporre delle colonne sonore… Invidio Cat Stevens, che ha avuto la fortuna di partecipare a uno dei miei film preferiti di tutti i tempi, “Harold & Maude”. Sarebbe bello lavorare per Scorsese o per Tarantino. O per Sofia Coppola, una grande regista.

Domanda inevitabile: il successo dello spot Vodafone è stata una benedizione o una maledizione?
(Courtney) E’ fantastico sapere che una tua canzone viene suonata centinaia di volte al giorno in ogni parte del mondo, esattamente nella forma in cui tu l’hai voluta registrare e mixare. Se poi Burger King volesse cambiare le parole in cambio di un vitalizio da mezzo milione di dollari all’anno, io ho già il testo bell’e pronto…

(Alfredo Marziano)

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