A guardarlo sembra un uomo felice. O almeno sereno. A 66 anni è in perfetta forma, da dieci è sposato con la stessa donna (un record!), Suzanne Accosta. Ha tre figlie piccole che adora e che durante l’intervista negli uffici della sua agente di Londra entrano ed escono di continuo dalla stanza. Ha scritto un libro, “Rolling with the Stones” (Mondadori), in uscita in
Italia in questi giorni: 500 pagine dense di informazioni e corredate da 3000 immagini, un lavoro monumentale che Wyman definisce “la prima vera biografia del
gruppo”. Ma soprattutto l’ex bassista degli Stones, nella band per 31 anni, ora ha il tempo di fare quello che - dice - gli piace veramente. “Ricerche archeologiche nella mia tenuta del Suffolk.
Fotografia. E ancora musica, ma in modo diverso che in
Passato”. Cioè?
Sono tornato al blues, la mia antica passione. L’anno scorso ho anche pubblicato un libro, “Blues odyssey”, che ha ricevuto un premio dalla Blues Foundation. E poi suono con i Rhythm Kings.
Nome suggestivo, i re del ritmo.
Siamo una piccola band ma abbiamo un circuito molto interessante. Il bello del fare musica con questo gruppo è che ti esibisci inevitabilmente davanti a un pubblico ristretto.
Cosa c’è di bello in questo?
Riesci a cogliere le vere emozioni della gente. La vedi piangere, ridere, urlare, sudare. Tutte cose che avevo dimenticato.
E’ per questo che nel ‘93 sei uscito dagli Stones?
In un certo senso sì. Capivo di essere parte di un ingranaggio che lasciava poco spazio alla vita vera. La vita da star poi non è così glamorous come ci si potrebbe immaginare. Specie all’inizio, negli anni Sessanta e Settanta, i fan ti strappavano letteralmente gli abiti di dosso. Essere uno Stone significava stare sempre nell’occhio del ciclone. E qualcuno di noi ha pagato un prezzo fin troppo alto.
Ti riferisci a Brian Jones
Beh, il suo caso è emblematico. La sua morte nel ’69 segnò la fine di un’era in tutti i sensi. Subito dopo la scomparsa di Brian facemmo il grande concerto gratuito a Central Park: il canto del cigno.
Prima hai parlato dell’emozione che si prova suonando davanti a un piccolo pubblico. Ma anche esibirsi di fronte a una folla oceanica come quella doveva essere sconvolgente, no?
Fu apocalittico. A Londra quel sabato di luglio tutti i bar e i negozi restarono chiusi. Nessuno fece shopping, vennero tutti a vederci. Quasi mezzo milione di persone. Dal palco sembravano un enorme tappetoumano. E il giorno dopo tornarono a pulire.
Impensabile.
A dire il vero avevamo promesso un disco gratis per ogni sacco della spazzatura riempito. Nel parco non rimase a terra nemmeno un pezzo di carta. Per sera tutto era a posto: solo qualche ramo spezzato qua e là.
Questo è un bel ricordo. Quali sono quelli brutti?
Dover cambiare città ogni sera durante i tour. Duecento date all’anno - questa era la media, negli anni Sessanta - a pensarci ora sono un carico insopportabile per chiunque. E poi c’era un altro problema: non vedevi mai la tua famiglia.
Volendo potevi anche scegliere di portartela appresso.
Alcuni di noi lo facevano, ma questo non migliorava di tanto la situazione. Litigi e separazioni erano all’ordine del giorno. La nostra vita non era poi molto regolare.
Per le droghe, eccetera.
Io e Charlie eravamo puliti: sempre preferito bere. Ma in certi periodi la polizia ci perseguitava. Facevano irruzione in camera di Keith, che era sempre pieno, e se noi eravamo lì con lui ci portavano tutti dentro.
Un bel casino. Del resto per stare nella più grande rock’n’roll band del mondo c’è un prezzo da pagare.
E alla fine, infatti, io ho scelto di uscirne. Ero stanco e mi sembrava che non ci fossero prospettive di cambiamento. Nel ‘93, quando ho lasciato, quasi non facevamo più concerti.
E gli altri perché sono rimasti dentro?
Perché per loro gli Stones sono ancora tutta la vita. Non hanno mai smesso di crederci: è semplice.
Siete rimasti in buoni rapporti?
Certo: e i nostri figli si frequentano. Sono una famiglia, in fondo. Gente con cui hai passato trentun anni della tua vita, e condiviso cose importanti, difficilmente scompare nel nulla.
Non hai mai sofferto di complessi di inferiorità nei confronti di Brian prima, di Mick e Keith poi?
No, sinceramente non mi è mai importato un granché. E poi siamo sempre stati una band democratica: ingaggi divisi equamente e decisioni prese assieme. Altrimenti non credo che saremmo sopravvissuti. Certo, Mick e Keith hanno poi scritto quasi tutte le canzoni. Io invece sono sempre stato l’archivista del gruppo. A ciascuno il suo ruolo.
La quantità di fotografie e di memorabilia pubblicati su “Rolling with the Stones” in effetti è impressionante.
Pensa che è meno di un decimo della mia collezione. Ho sempre conservato cartoline, biglietti, lettere di ingaggio, fotografie. A casa ho stanze piene di materiale. Da che mi ricordi, poi, ho sempre tenuto un diario. E li ho conservati tutti. Quando sono partito per il militare - ma questo, ovviamente, era prima degli Stones - i miei genitori mi hanno buttato quelli di quand’ero bambino. Fosse stato per me avrei tenuto anche quelli.
Oltre alla musica e al collezionismo il tuo interesse principale erano le donne.
Le ragazze erano un modo per sentirmi vivo e umano. So che adesso suona solo come una frase furba, ma all’epoca, quando giravo una camera d’albergo dietro l’altra, avere un contatto fisico con qualcuno mi faceva sentire “normale”. Che poi ci dipingessero come dei mascalzoni sciupafemmine, questo è un altro discorso.
Chiamavate le ragazze “laundry”, “bucato”
Era un codice per comunicare con gli uomini della security. Le guardavamo dalla finestra e poi chiedevamo che ci portassero le più carine, “il bucato” in camera. Mi rendo conto, non è molto carino. Ma all’epoca non è che ci riflettessimo più di tanto.
Poi, con Suzanne, hai fatto una scelta definitiva.
Appunto. Sono un uomo fortunato. Negli anni Sessanta mio figlio Stephen era piccolo e lo vedevo per tre settimane all’anno, nemmeno di fila. Mi sono perso tutta la sua infanzia. Con la mia nuova famiglia e le piccole Mathilda, Jessica e Katherine è diverso. Me le godo fino in fondo. E hanno più importanza loro di tutte le donne della mia vita.
Che ne pensi dell'uscita di "Forty licks"?
Sono contento. Mi farà guadagnare un po' di soldi in diritti d'autore. Scherzo, non si tratta solo di questo: anche la qualità del suono è eccezionale. La resa dei brani è miracolosa. Ah, potenza della tecnologia!
(Paola Maraone)
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