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Torna con 'The naked ride home' uno dei più importanti autori della musica americana: ecco dove è stato...
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“The pretender”, “Late for the sky”, “Running on empty”: canzoni e dischi che fanno parte dell’immaginario rock, che sono alcune delle cose più belle mai prodotte musicalmente dagli Stati Uniti. Basterebbe questa premessa per capire l’importanza di Jackson Browne, uno che ha la statura di Springsteen, tanto per intenderci, anche se non tutto il successo e tutto il seguito. Come il Boss, anche Browne ha avuto alti e bassi, periodi più intimisti e altri più politicizzati, lunghi periodi di assenza e ritorni sulle scene.
A sei anni da “Looking east”, Browne ritorna con “The naked ride home”: abbiamo colto l’occasione per farci raccontare il ritorno sulle scene, ma anche la mai sopita passione civile. Un’intervista a cuore aperto, come tutta la musica di Jackson Browne.


La domanda da cui partire è anche quella più inevitabile: sei anni senza pubblicare un disco nuovo è un periodo bello lungo. Cosa è successo?
La risposta è più complicata di quello che si potrebbe pensare. Dopo "Looking east", ho passato un anno in tour con la band; l'anno successivo ho fatto una serie di concerti acustici con il mio vecchio compagno David Lindley. Poi, nel terzo anno, ho iniziato a lavorare ad alcune canzoni. Non ci vogliono necessariamente tre anni per fare un disco, ma nel frattempo sono sorte delle situazioni che richiedevano attenzione totale. In quel periodo la mia famiglia, ovvero mio padre, i miei fratelli e i loro figli, stava recuperando un rapporto vero, importante, dopo la morte di mia madre. Ci abbiamo messo un po', e certe cose, alla fine, sono più importanti del lavoro. Bisogna stabilire una lista di priorità delle cose che rendono la vita degna di essere vissuta. La gente si immagina che se fai un sacco di soldi, se diventi famoso, certi valori scompaiono. Ma non è così.

Forse, dopo più di trent'anni di carriera, sei nella posizione di poter decidere quando pubblicare un disco e quando stare fermo…
Non proprio. In realtà sono stato in tour perché avevo bisogno di soldi, o almeno avrei dovuto smettere di spenderli… E lo stesso vale per la pubblicazione del disco.

Tu hai avuto successo soprattutto tra la fine degli anni '70 e i primi '80, ma non hai mai raggiunto la popolarità di alcuni tuoi amici e colleghi come Springsteen o gli Eagles. Rimpiangi di non essere diventato così famoso?
Per quello che mi riguarda, ho già avuto più successo di quanto ne potessi sopportare. Dal punto di vista economico, pure: ho avuto più soldi di quanto non immaginassi. Ma non ho mai inteso i numeri - quelli della gente che viene a vedermi o dei dischi che vendo - come un metro di giudizio di quello che faccio. Intendo il mio lavoro soprattutto come una sfida con me stesso. Ma, ovviamente allo stesso tempo, voglio avere una risposta da parte del pubblico.
Ecco, quando facevo dischi come "Lives in the balance", album che avevano una forte connotazione politica, mi sarebbe piaciuto raggiungere più gente. Ma era proprio per il contenuto "attivista" di quelle canzoni, non per altro.

A proposito di "Lives in the balance": quel disco, uscito nel 1986, criticava fortemente il patriottismo di facciata in "For America" e l'illusione che la guerra fosse un modo per risolvere le questioni. Affermazioni incredibilmente attuali, se si pensa al post-11 settembre e ai discorsi che Bush fa sull'Iraq.
Oltre al fatto che gli Stati Uniti continuano a comportarsi allo stesso modo, quelle canzoni hanno avuto una vita propria. In quel disco si parla del Centro America, ma potrebbero essere le Filippine o l'Iran e l'Iraq. La politica estera degli Stati Uniti è mutata poco negli ultimi quindici anni.
Non si può pensare che sia cambiato molto, dopo il crollo del muro di Berlino. Forse solo il fatto che, dopo la fine del comunismo, ora l'America ha bisogno di un altro nemico. Diversamente non possono convincere la gente della necessità di spendere bilioni di dollari in armamenti. E nonostante tutti i soldi sprecati per la difesa, oggi il mondo non è un posto più sicuro. La verità è che, come dicevo in quel disco, ancora oggi ciò che si compra e si vende sono le vite della gente.

Nella tua carriera sembra esserci una frattura tra i dischi degli anni '70, scritti al piano e più intimisti, e quelli degli anni '80, più elettrici e politici. Ammesso che questa tu riconosca questa "griglia", dove collocheresti il nuovo album?
Ad un certo punto sono diventato più interessato ad arrangiare una band, piuttosto che a scrivere da solo. E' successo dopo "Running on empty", perché quel tour aveva cementato un gruppo. Ci ho messo un po' ad imparare ad essere un leader, e per lungo tempo non credo di averlo fatto bene. Oggi non credo di essere più un band leader. Lo sono di fatto, perché scrivo e canto le canzoni; ma il nuovo disco, come gli ultimi che ho pubblicato, sono basati sull'ascolto: porto le canzoni, e ascolto i suggerimenti di chi suona con me. "The night inside me", per esempio, era stata scritta sulla chitarra acustica, ma l'abbiamo riscritta tutti assieme in studio.

Il nuovo disco, comunque, è politico, ma in un modo meno diretto dei tuoi dischi degli anni '80. Quasi a sottolineare che la politica fa parte delle vita di tutti i giorni.
La musica, come la politica, è efficace quando la gente la vive sulla propria pelle. Se non sei interessato a quello che succede o a quello che racconta una canzone, non lo capisci. Per questo oggi scrivo canzoni meno politicamente dirette, ma che cercano di capire i problemi della vita di tutti i giorni.
La verità è che la nostra società è sempre più apolitica: viviamo le cose con indifferenza. Bush, il grande "cristiano", dichiarando guerra commette un crimine contro l'umanità in contraddizione con la sua fede. Lo giustifica con l'attacco subito dall'America, che è stato davvero tale. Ma ci dimentichiamo le cause che l'hanno generato: la nostra cupidigia e il modo in cui abbiamo ignorato la povertà, l'ingiustizia, l'intolleranza religiosa.

Una delle tue canzoni più note, "The pretender", parla proprio della finzione come modello di vita: far finta che nulla succeda per non turbare il proprio comodo equilibrio. "Sarò un felice idiota", cantavi quasi trent'anni fa. Non molto è cambiato, sembra.
Spero che non suoni troppo compiaciuto, ma suono ancora quelle canzoni perché credo che forse abbiano più significato oggi che allora. Il tempo passa, la vita diventa più grande, e le contraddizioni si fanno più evidenti. Quello che cantavo in "The pretender" è una contraddizione tipica della vita moderna: si pensa di avere tempo soltanto per il proprio orticello, di non potersi occupare di ciò succede oltre alla porta di casa.
Molta gente, per esempio, ama New York perché è una città talmente grande che puoi condurre una vita anonima, senza che nessuno ti disturbi. Credo che capiti in molte altre città, magari anche a Milano o Roma: per molti è rassicurante vivere in questo modo.

Che cosa significa il "ritorno a casa nudi" che dà il titolo al disco?
Era semplicemente il titolo migliore, tra quelli delle canzoni incluse. Poi ha una serie di significati che mi sembra calzino bene con ciò che io sono oggi: l'idea del tornare alle proprie origini, la nudità come sinonimo di ricerca della verità…

Nel disco c'è una canzone dedicata a Sergio Leone. Come mai hai scelto di ricordare il regista italiano dello "spaghetti western"?
In realtà abbiamo inciso la base musicale ancora prima che io scrivessi le parole, che sono arrivate in un secondo momento. Ho usato Leone come una sorta di protagonista di un film western… Il regista che diventa une bandito per fare i propri film. E' un tentativo di capire perché si facevano film di questo genere, che abbiamo tutti bisogno di rivedere: parlano di giustizia, di conflitti con gli altri. Della vita di tutti i giorni, insomma.

(Gianni Sibilla)

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