Le masse se li ricordano per “Born slippy”, brano che, qualche anno fa , divenne l’inno della generazione chimica grazie all’inclusione in “Trainspotting”. Gli appassionati di quel macrogenere musicale un po’ vago ed indefinito che va sotto il nome di “musica dance” sanno che gli Underworld sono dei pionieri del genere. Insomma, Karl Hyde e Rick Smith hanno messo d’accordo un po’ tutti, chi ascolta musica per caso, chi segue le evoluzioni di una “club culture” sempre più frammentata, e anche chi è legato alle forme più tradizionali del pop e del rock. Gli Underworld sono una live band, non il solito collettivo di DJ.Smaltita la sbornia di “Born slippy” con un disco di studio e con un disco dal vivo (“Everything everything”, 2000), gli Underworld hanno chiuso un ciclo: Darren Emerson, il DJ, è uscito dal gruppo. Oggi questo ciclo si riapre con un nuovo album, “A hundred days off”. Ce lo siamo fatti raccontare da Karl Hyde, che degli Underworld è la voce (in tutti i sensi).
”A hundred days off” è il primo disco primo che incidete senza Darren Emerson. Cosa ha comportato la sua assenza?
Non ha avuto vere proprie conseguenze sul disco in quanto tale: io e Rick lavoriamo assieme da 22 anni, ci conosciamo bene. Darren aveva bisogno di seguire la sua strada, per cui la sua decisione di uscire dal gruppo è stata liberatoria per tutti. Ora ha la possibilità di fare le proprie cose, mentre noi due abbiamo avuto la possibilità di sperimentare nuove idee e nuovi modi di lavorarle. Comunque, già in passato Rick aveva prodotto gli album degli Underworld e scritto buona parte della musica, mentre io continuo come sempre ad occuparmi delle parti vocali. Per cui il punto di partenza è rimasto, bene o male, lo stesso.
Con il disco precedente, un live, e con l’uscita di Darren Emerson, si è chiuso un ciclo, per gli Underworld.
E’ vero. Il disco dal vivo è stato concepito come una testimonianza, perché al tempo non sapevamo cosa sarebbe successo in futuro: se non avessimo mai più fatto cose del genere, volevamo comunque pubblicare qualcosa che stabilisse chi eravamo in quel momento, a futura memoria. Rick aveva infatti deciso che, dopo quel tour, gli Underworld si sarebbero presi una pausa di riflessione, dopo la quale si sarebbe visto cosa fare.
Io e Rick sapevamo che avremmo comunque continuato a fare musica insieme, quella che desideravamo fare qualunque fosse stata. Ma sapevamo anche che ci saremmo assunti la responsabilità di questa scelta: se non fossero più esistiti gli Underworld, sarebbe andato bene lo stesso.
“Everything everything” è stato una sorta di esperimento apripista nel campo: solitamente la musica dance non viene intesa come un qualcosa suonare dal vivo. Poi, però, siete stati abbondantemente imitati, tanto che pure Fatboy Slim ha pubblicato un disco dal vivo.
Tutto è iniziato dall’idea di fare un DVD. Era interessante l’idea di sfruttare le possibilità multimediali che questo supporto offre. Quindi si è trasformato anche in un disco, una testimonianza, come dicevo prima. Ci siamo finanziati tutto da soli e siamo contenti che le case discografiche, vedendo il nostro lavoro, si siano convinte che questo genere di idea funziona e ne abbiamo prodotte altre.
Però ci tengo a sottolineare che noi siamo una live band: suoniamo dal vivo, non usiamo campioni e suoni preconfezionati. Se non fossimo stati un gruppo di questo genere non avrebbe avuto senso concepire un progetto del genere. Da questo punto di vista la dance –almeno quello che facciamo noi- è più vicina al jazz: improvvisazione, uso libero di suoni. Miles Davis, a suo modo, era un grande DJ.
Queste analogie strutturali poi, almeno in parte, spiega anche l’uso del jazz da parte dell’elettronica contemporanea. Oltre ovviamente al fatto che nel jazz ci sono suoni bellissimi e registrati benissimo: una vera manna per chi cerca sample da utilizzare per costruire un brano dance.
Tornando a “A hundred days off”: questo disco sembra meno cupo, più solare dei precedenti lavori del gruppo…
Credo sia vero: il nostro stato d’animo era migliore quando lo abbiamo inciso. Comunque, tra me e Rick, lui è quello più incline a queste atmosfere, io sono quello più ‘scuro’. Non credo che abbia a che fare con l’uscita di Darren dal gruppo. Piuttosto è legato al fatto che ho smesso di bere…(ride)
Qualcuno ha scritto che è un disco meno “under”, più “world”. Meno sotterraneo, più aperto verso ciò che vi circonda. Si sente anche nella scelta dei suoni, che in alcuni momenti richiamano la musica etnica.
Abbiamo raccolto diverse suggestioni, dalle percussioni brasiliane ed africane– tutte suonate dal vivo – alla chitarra blues, al banjo elettrificato che sembra uno strumento cinese… I nostri gusti sono molto eclettici: io ho portato in studio dischi di world music, entrambi siamo interessati ai groove che si possono ottenere con strutture poliritmiche tipiche di alcune forme di musica etnica. Non abbiamo tentato consciamente di riprodurre un particolare suono o una forma musicale di qualche parte del mondo, tantomeno eravamo interessati a rifarci ad un presunto “suono Underworld”: Questo disco è frutto di una risposta inconscia a tutto ciò che ascoltavamo mentre lo stavamo incidendo.
Qualcosa degli Underworld è rimasto: un sostanziale equilibrio tra strutture dilatate tipiche della musica elettronica e un riferimento alla forma canzone tipica del pop, almeno per le tue parti vocali.
Quando scrivo, cerco sempre di tenere a mente quello che può fare una canzone pop ad brano di musica dance: distruggerlo. Faccio tutto ciò che posso per evitare le forme del pop, i tre minuti e mezzo e la ripetizione “strofa-ritornello-strofa”. Il bello della musica elettronica è la libertà compositiva: un fattore che offre la possibilità ad un cantante di sperimentare nell’uso della voce e nella costruzione delle melodie.
Però il vostro maggior successo è arrivato con “Born slippy”, che è quanto di più vicino ad una pop song abbiate mai inciso…
Oh, no: il successo di “Born slippy” è dovuto esclusivamente all’inclusione in “Trainspotting”, a niente altro. Era un singolo bizzarro, una canzone strana da sentire in radio alle nove di mattina… E’ stato l’insieme che ha funzionato: quella canzone e quel film erano la rappresentazione di un certo fenomeno sociale in un certo periodo. E’ capitato altre volte in altri momenti con altre canzoni. Per esempio per i Sex Pistols e il Giubileo. Ovviamente, sono orgoglioso che una cosa del genere sia successa ad una mia canzone.
Il titolo del disco è abbastanza criptico: “100 giorni di vacanza”…
E’ nato da una frase del figlio di Rick: una mattina lo stava portando a scuola, e lui disse che sarebbe stato bello andare a scuola un giorno poi essere in vacanza per altri 100. Rick me l’ha riferita divertito e io l’ho presa sul serio… Mi ricordava il titolo del famoso romanzo di Garcia Marquez, “Cento anni di solitudine”: un libro così profondo e famoso, mentre la frase era gioiosa e scanzonata…
Questa frase, però, sembra avere a che fare con la fuga, la liberazione: tutti concetti tradizionalmente associati alla musica dance, alla club culture.
Si, questo album è stata un’esperienza catartica e liberatoria. E’ stata una sorta di vacanza dagli Underworld: io e Rick eravamo semplicemente due persone che facevano musica assieme, indipendentemente da nomi ed etichette. In questo senso, è stata una sorta di fuga da ciò che eravamo prima.
Come ricordavi prima, tu e Rick siete in giro da oltre vent’anni; come Freur e come Underworld ne ha avete viste un bel po’. Oggi la scena della musica elettronica è sempre più frammentata. Vi ci riconoscete ancora?
In realtà non so se abbiamo ancora un posto in questa scena, ammesso che ce ne sia una. Siamo quello che siamo, suoniamo come noi stessi e come nessun altro. Ci siamo allontanati dalla scena in diversi momenti: negli anni ’90, prima di dare vita agli Underworld, per esempio. Poi le siamo sopravvissuti quando stava scomparendo.
Però oggi mi piace questa diversità che impera nella club culture: sono contento di vivere a Londra, dove convivono così tanti sottogeneri diversi che rendono la musica dance più interessante.
(Gianni Sibilla)