
Bregovic è quanto di più lontano ci sia dallo stereotipo del musicista pop, diviso com’è tra canzone popolare, il recupero delle proprie radici e le sperimentazioni tipiche della musica contemporanea. Rockol lo ha intervistato per farsi raccontare tutto questo e altro ancora, compreso il rapporto con la sua martoriata terra d’origine, (è figlio di madre croata e padre serbo, ma è andato in esilio a causa della guerra) e con il tormentato occidente post–11 settembre.
Tra “Ederlezi” e “Tales and songs from weddings and funerals” sono passati diversi anni. Sebbene tu abbia pubblicato altre cose nel frattempo, questo è il tuo vero primo disco da allora….
In questi sei anni ho prodotto un disco in Turchia, uno in Grecia, due in Polonia… Non si può dire che sia stato fermo. Ma non sono della generazione di MTV, uno che deve essere sempre presente nelle classifiche o sotto gli occhi di tutti. Sono un compositore, ho i miei ritmi: scrivo e incido quando riesco; se non ci riesco non lo faccio. Non ho nessun tipo di vincolo, come un cantante pop.
Quest’ultimo è un disco che ho concepito poco per volta: negli ultimi anni, improvvisando prima dei concerti con il mio gruppo, abbiamo scritto diversi brani. Poi, molto velocemente, li abbiamo incisi, ed il disco è stato pronto. L’ho registrato con musicisti con i quali mi interessava collaborare, che ho incontrato nei paesi dell’area balcanica. Comunque non credo che cambierò approccio, in futuro: se mi riesce, potrei pubblicare due dischi all’anno; se no, uno ogni sei anni, chi può dirlo?
Ti aspettavi questa attenzione, soprattutto in Italia?
Onestamente è strano vedere in un paese come il vostro, che ha dato così tanto alla musica del mondo, tutto questo interesse per una musica proveniente da luoghi con una tradizione musicale così piccola. Ovviamente è un complimento enorme che ci sia tutto questo pubblico per i miei dischi ed i miei concerti.
Volente o nolente, sei diventato una sorta di portavoce della musica balcanica. Questo ruolo ti infastidisce o ti fa piacere?
Se attraverso di me qualcuno può essere introdotto alla cultura musicale dei paesi balcanici ed essere spinto a scoprire altri artisti, non posso che esserne felice. E’ una cultura musicale piccola, ma non mancano le cose da scoprire, per chi è curioso.
Tornando al nuovo disco: ha una struttura abbastanza particolare, divisa tra canzoni e “racconti”, tra musica popolare e quella contemporanea.
Le canzoni sono scritte per essere cantate a matrimoni e funerali, perché quelli sono gli eventi della musica gitana e balcanica. I “Tales” invece sono delle proposte per dei film immaginari, presenti solo nella nostra testa. Questi brani hanno una struttura riconducibile alla musica contemporanea, anzi, ambiscono ad essere musica contemporanea. Per questo motivo ho voluto anche inserire delle indicazioni di tempo nei titoli. In parte le ho derivate dalla musica classica, come “Vivo con fuoco”, in parte sono più libere come “adagio arabesco”.
Prima dicevi che le tue canzoni sono state scritte per matrimoni e funerali, pensando alla musica popolare della tua terra. Ti senti quindi più legato alla musica popolare che al pop ed al rock?
La musica pop è ovviamente molto influenzata dalla musica popolare. Questo legame con la tradizione è naturale per ogni tipo di musica. Forse le mie influenze sono particolari, perché le musiche da matrimoni e funerali non sono poi così conosciute dalle vostre parti.
Io ho passato diversi anni a fare il musicista rock, e devo dire che almeno una cosa mi è rimasta: la voglia di divertirmi. Anche se scrivo brani più complessi, che coinvolgono magari un’orchestra ed un coro, ho sempre voglia di divertirmi insieme ai musicisti. E poi spero di avere conservato anche un po’ dell’energia del rock.
Una delle canzoni si intitola “Polizia molto arabbiata”: un titolo che in Italia è destinato ad essere notato subito. Come è nata?
Ormai non scrivo più nella mia lingua, perché il serbo croato non esiste più. Così questo disco è scritto e cantato nell’idioma dei gitani. La canzone è il racconto del nomadismo di quella gente in Europa, continente descritto come madre e matrigna. Il lavoro dei gitani è l’elemosina, e si racconta – con ironia - della polizia che se la prende spesso con loro, in qualsiasi città vadano.
In passato hai collaborato con alcuni musicisti occidentali molto famosi. In questo nuovo disco, invece, hai scelto di avere come ospiti solo artisti delle tue terre. Come mai?
Ho avuto la possibilità di conoscere musicisti occidentali noti soprattutto grazie al lavoro che ho fatto in passato sulle colonne sonore. Questa volta ho scelto gente che ha lo stesso talento artistico, solo che arriva da paesi dove anche il più grande o famoso personaggi si esibisce a matrimoni e funerali. E’ proprio così che diventano famosi, anzi: questa scelta era l’unica possibile per un disco come questo, centrato appunto su questi riti sociali come eventi musicali.
Oltre a questo disco, hai scritto un Oratorio, dal titolo “Cuore tollerante”. Ce ne parli?
Il titolo prende spunto da una poesia di un poeta arabo, mentre l’opera mi è stata commissionata dalla Chiesa di St. Denis, a Parigi, dove sono seppelliti i re francesi.
Ogni anno commissionano un’opera ad un compositore, e quest’anno è toccato a me. Ho proposto di scrivere una liturgia in tre atti, ognuno dei quali dedicato ad una religione monoteistica: cristianesimo, ebraismo ed Islam. Ho cercato di tenere presente gli elementi comuni ad ognuna di queste liturgie: la proposta di un tema su cui riflettere, uno sviluppo con riferimenti alla tradizione e alla storia, ed una conclusione rivolta al futuro ed alla speranza. E’ una liturgia divisa tra sacro e profano, che cerca di unire e non di dividere: ho cercato di non insistere troppo sugli elementi religiosi, che sono quelli che hanno causato guerre e sofferenze tra queste tre diverse religioni.
Tu sei un musicista nomade: sei emigrato dalla tua terra, hai vissuto in diversi luoghi a causa della guerra. Nell’ultimo anno il tema della guerra ha investito tutto l’occidente: come hai vissuto questo clima?
Tutto quello che è successo purtroppo non mi è nuovo: le catastrofi sono una costante della mia terra. Le guerre hanno spesso reso gli artisti dei nomadi in esilio. L’esilio, però, ti permette di avere una distanza sulle cose che è spesso una buona condizione per la creazione artistica. Ti permette di avere confidenza, soprattutto nel caso di una cultura piccola, particolare e frammentata come quella balcanica. Non è un caso che molti dei migliori artisti della mia terra abbiano prodotto le loro migliori creazioni in esilio.
Una tragedia come quella di New York, per qualcuno che arriva da un posto dove le stragi sono purtroppo all’ordine del giorno, viene vissuta in modo diverso. Tutti i racconti che ascolti, da quando sei bambino fino a quando sei vecchio, sono purtroppo di questo tipo. Non voglio dire che ci siamo abituati, però sono situazioni che non ci sono nuove.
Una delle critiche che sono state mosse spesso alla musica è di avere reagito poco e male ai fatti dell’11 settembre. Sei d’accordo?
Cosa vuoi che faccia un artista, quando un evento provoca una reazione così decisa e forte da parte dei militari? Non credo che ci sia bisogno degli artisti in queste situazioni. Gli artisti occidentali devono avere questa piccola illusione, ovvero che ciò che fanno è importante e può contribuire a cambiare le cose. Ma io vengo da un paese che fino a qualche anno fa era comunista: nessun artista che arriva da una situazione del genere può coltivare questa illusione, quella che qualche nota possa cambiare gli eventi. Il nostro approccio è decisamente più minimalista: sappiamo che il nostro lavoro può contribuire a illuminare le piccole cose.
(Gianni Sibilla)