Suzanne Vega è tornata. “Songs in red and gray”, uscito alla fine dello scorso settembre è il primo nuovo disco della cantautrice in cinque anni. Suzanne Vega è tornata alle origini, con un album di canzoni che ricordano i suoi esordi, il disco omonimo (1985) e “Solitude standing” (1987), noto al grande pubblico per il successo di “Luka”. Al tempo i dischi vennero accolti come una rinascita di quel cantautorato femminile sviluppato da Joni Mitchell. Oggi, come ci spiega Suzanne, la scena è cambiata ed è molto più difficile collocare un disco come “Songs in red and gray”. Questo, però, nulla toglie alla sua bellezza.Suzanne è tornata in Italia: in questi giorni ha girato a Cortina un clip per “(I'll never be) your Maggie May”, ha fatto alcuni miniconcerti (tra cui quello natalizio in Piazza del Duomo a Milano) in attesa del tour vero e proprio, previsto per Marzo. Rockol ha colto l’occasione per scambiare due chiacchere con lei, per farsi raccontare come è cambiata la sua vita in questi 15 anni e per come è cambiata la sua percezione dell’arte, come musicista e come newyorchese, dopo i fatti dell’11 settembre.
“Songs in red and gray” è un disco per certi molto vecchio stile, una sorta di ritorno alle tue origini musicali.
E’ vero: nelle intenzioni di fondo, specialmente nel songwritng è molto tradizionale. Almeno musicalmente, però, non volevo che fosse un disco vecchio stile: per questo ho voluto un suono moderno, colorito anche con effetti elettronici.
A questo proposito, hai dichiarato che il titolo fa riferimento a due elementi opposti: il grigio è la maturità e il rosso la passione. Riesci a conciliare questi due elementi nella tua musica e nella tua vita?
Con grande difficoltà! Non c’è molta armonia nella mia vita, ma conflitto; questo è ciò che rende la vita interessante e che fa nascere la mia musica.
Recentemente hai pubblicato un libro di poesie, che è stato tradotto anche in Italia. Che differenza c’è per te tra lo scrivere una canzone e una poesia?
Sono due cose molto diverse. Per me una canzone un fatto privato, è come una preghiera. E’ una sorta di incantesimo, con una forte componente magica: devo usare una parte particolare del mio cervello. Un romanzo o una poesia sono testi solo scritti e per questo molto più diretti: sono una sorta di conversazione, nella quale puoi fare affiorare molte più idee che non in una canzone.
La tua carriera ha ormai superato la soglia dei quindici anni. Che tipo di musica ascolti oggi, e quanto ti influenza ancora nello scrivere, adesso che hai una tua personalità artistica più definita?
Ascolto la musica in modo diverso da quando ero più giovane. Una volta era presente in ogni momento della mia vita, ne ero davvero ossessionata. Oggi ne ascolto di meno, ma in modo diverso, più attento. Finisco però con il tornare sempre agli stessi artisti, gente come Bob Dylan o Lou Reed.
Dal punto di visto della produzione musicale apprezzo gente come Sara McLachlan, che ha un approccio per certi versi simile al mio, o artisti che mixano la tradizione cantautorale con i ritmi dance e l’elettronica. Dal punto di vista dei testi, invece, ormai scrivo da così tanto tempo che preferisco concentrarmi su me stessa e sulle mie esperienze per trovare ispirazione.
Il tuo disco d’esordio a metà degli anni ’80 segnò una sorta di ritorno del cantautorato femminile. Come ti sembra sia cambiata la scena musicale femminile in questi anni?
Quando ho esordito c’era una nicchia in cui mi potevo collocare comodamente. Nomi come Joni Mitchell e Patti Smith erano i numi tutelari di ogni donna musicista. Oggi lo spettro è molto più ampio; va da Ani Di Franco a Tracy Champan passando anche per Joni Mitchell e Patti Smith, che continuano a fare musica di ottimo livello. Faccio più fatica a collocarmi in una scena musicale di questo genere. Personalmente mi piace molto PJ Harvey e il suono del suo ultimo disco, anche se è molto lontano da quello che sceglierei per un mio lavoro.
Negli anni è cambiato anche il tuo stile di vita?
Non molto, continuo a vivere a New York, a prendere bus e metropolitane, a portare i miei figli a scuola… Non sono poi così conosciuta in America; per esempio, è un sacco di tempo che non vado in TV. La celebrità è una cosa che va e viene: ho venduto molti dischi agli esordi, con “Luka” e allora ero effettivamente molto conosciuta. Ora non è più così, e questo mi permette di fare una vita tutto sommato ordinaria.
A proposito di New York: l’11 settembre ha cambiato in qualche modo la percezione del tuo mestiere?
Tutto il mondo è cambiato. “Songs in red and gray” è uscito alla fine di quel mese, ma è stato scritto e registrato prima, ovviamente: Dopo i fatti dell’11 settembre avevo anche pensato di rimandarne la pubblicazione. Per fare un esempio, in questi ho girato a Cortina un video per “(I'll never be) your Maggie May”, con la regia di Luca Merli. E' un video romantico e io mi aggiro sulla neve con un vestito molto bello. Mi sono sentita un po’ stupida a fare la romantica quando c’è gente che sta ancora lavorando tra le macerie di New York e c’è la guerra in un’altra parte del mondo
L'11 settembre è stato un giorno terribile. Noi artisti, ora, sentiamo una responsabilità maggiore. Sicuramente il mio prossimo disco sarà segnato da questi avvenimenti e i testi punteranno maggiormente sul lato sociale.
Eri in città quel giorno? Che effetto ti ha fatto quell’attentato come cittadina?
Si, ero in città. Le torri gemelle erano visibili dalla finestra di casa mia e facevano ormai parte del paesaggio e sono stata ovviamente scioccata da tutto. Devo dire che gli abitanti della città, in quel momento, hanno subito una grande perdita, ma hanno aperto gli occhi e sono stati capaci di reagire. Prima era facile vedere i newyorchesi sempre arrabbiati e di fretta; adesso è tutto relativizzato, la vita ha assunto un altro significato.
Parlando della reazione all’aggressione, alcuni intellettuali americani sono stati molto critici nei confronti del ruolo svolto dall’America in seguito all’aggressione.
Non è facile dei fare commenti alla questione. Come intellettuale newyorchese, mi rendo conto che dovrei dire o fare qualcosa al proposito. Dall’altro, quando qualcosa del genere capita nella tua città e colpisce la tua gente –sai, mio fratello lavorava nella zona delle Twin Towers, ma quel giorno era in malattia, alcuni miei amici sono morti nelle torri- senti che devi reagire in qualche modo. La gente che ha architettato tutto questo è semplicemente pazza. Certo, l’America non è un paese puro con la coscienza immacolata, e i newyorchesi si sono chiesti come possano avere contribuito a creare tutto questo. Ma non c’è davvero nulla che possa giustificare un atto di terrorismo di quella portata. Continuo a svegliarmi la mattina, pensarci e chiedermi se sto sognando.
(Giuseppe Fabris/Gianni Sibilla)