
Il punto di questo “Reality”, è semmai un altro. Più che un ritorno alle origini, è un ritorno sulle scene in grande stile: la citata diretta satellitare del concerto di presentazione (diffusa in 68 cinema distribuiti in 22 paesi) e il tour mondiale che partirà il mese prossimo (il primo da molti anni) fanno capire che questa volta il Duca Bianco ha fatto le cose in grande.
E, a voler ben vedere, questo spiega anche il contenuto di "Reality": che è il disco più rock di Bowie da molti anni a questa parte. In altre parole, è fatto per essere suonato dal vivo, come il concerto satellitare ha dimostrato: grazie alla rodata band (la stessa di “Heathen”) queste canzoni sul palco acquistano maggiore forza.
Perché, avendo sentito il disco e avendo sentito le versioni live, la sensazione è che il primo sia decisamente meno forte. Non che non sia un buon disco, questo “Reality”, anzi. E’ un album piacevole. Ma nella versione di studio la maggior parte dei brani mostrano tutta la loro “ordinarietà”. Insomma, a parte un paio di casi (il singolo “New killer star” su tutti), non ci sono grandi guizzi di genio qua dentro, ma solo tanto mestiere. Ottimo (si tratta pur sempre di Bowie), ma comunque mestiere: i suoni giusti al posto giusto, nessuna sbavatura, le consuete cover bizzarre (una dei Modern Lovers di Jonathan Richman, “Pablo Picasso”, e un brano “minore” di George Harrison, “Try some, buy some”), canzoni più tirate e altre più decadenti (“The loneliest guy” e la jazzata “Bring me the disco king”).
Come scriveva Rockol recensendo “Heathen”, gli anni passano per tutti: Bowie sembra decisamente in forma fisica, negli ultimi tempi. Anche la sua musica ha abbondantemente superato le crisi di mezza età degli anni ‘80, attestandosi ad un buon livello. Ma la giovinezza, quella è un’altra cosa.