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«SONGS OF A LOST WORLD - Cure» la recensione di Rockol

Cure, canzoni per un mondo perso

Svaniti per sempre serenità e sogni, il nuovo album di Robert Smith e soci per cantare la fine

Recensione del 01 nov 2024 a cura di Marco Di Milia

Voto 8/10

La recensione

Una lunga attesa, che alla fine ha dato i suoi risultati. D’altronde in un album che ha nel tempo uno dei suoi temi centrali, non si poteva proprio fare diversamente prima di sintonizzarsi sulla giusta lunghezza d’onda. Tra annunci disattesi e brani presentati nei recenti tour come parte del nuovo lavoro, evidentemente ci voleva ancora qualche sosta per mettere a fuoco tutte le emozioni e le inquietudini della modernità che ruotavano intorno a Robert Smith e ai suoi Cure, perché prendessero finalmente forma compiuta nel nuovo, attesissimo, “Songs Of A Lost World”.

A distanza quasi siderale dal 2008 di “4:13 Dream” e dal 2004 dell’omonimo “The Cure”, non certo tra le opere più rappresentative del repertorio, il tanto annunciato 14° disco di inediti della band  si compone di luci, poche, e soprattutto di ombre per otto tracce in cui tutto sembra smarrito per sempre: la giovinezza, le persone care, la serenità, i sogni. Ogni cosa ormai è andata in frantumi e non c’è che un mondo perduto con cui fare i conti.

L'Alfa e l'Omega del mondo perduto

Cupo e solenne, in circa 50 minuti il disco inizia e finisce in una circolarità quasi infinita, un palindromo sonoro in cui “Alone” e “Endsong” sono l’Alfa e l’Omega di un intero lavoro struggente e oscuro di lacrime e rimpianti. Non sono certo argomenti inediti per le trame dei Cure, tanto da ritrovare una forte connessione con i fasti del capolavoro “Disintegration” o di “Bloodflowers”, ma quegli album erano frutto della paura di Robert Smith di passare il traguardo dei 30 e dei 40 anni. “Prima scrivevo di cose che pensavo di capire”, ha detto Smith, a proposito di morte e sconforto: “Ora so di capirle”.

“Songs Of A Lost World” si apre invece con una densa ballata di quasi sette minuti dalla lunga intro strumentale che non ammette spiragli, lontanissima dalle logiche radiofoniche e di streaming, ispirata da una poesia di Ernest Dowson, “Dregs”, sul finire dei suoi giorni, che in chiusura recita: “questa è la fine di tutte le canzoni che l'uomo canta”. In un flusso quasi ipnotico di chitarra, synth e batteria, l’ingresso quasi teatrale della voce che intona “This is the end of every song that we sing”, ammanta il brano di cupa solennità, risultato della sensazione di sopraffazione e spaesamento che il cantante dice di provare durante la notte.

Se in “Alone” il dolore è espresso in termini universali, con la successiva “And nothing is forever” deriva, al contrario, da una circostanza molto più personale, quella di una promessa disattesa che il leader del gruppo non ha potuto mantenere verso chi lo stava salutando per sempre. Il risultato è una sorta di messaggio alla luce, tra archi e tastiere. Ancora, si passa dai conflitti privati di “Warsong” per aprire una finestra sull’attualità, perché in fin dei conti lo scontro è parte della natura umana, fino al groove meccanico delle chitarre di “Drone: nodrone”, in cui la rabbia sembra esplodere nella frustrazione di una sorveglianza continua del mondo moderno.

C’è spazio quindi per l’elaborazione di un lutto, quello che Robert Smith dedica al fratello maggiore Richard, in “I can never say goodbye” con tanto di fragore di tuoni, in un toccante canto intimo e straziante, sulla difficoltà di pronunciare la parola “fine”.

In chiusura, invece, “Endsong”, riprende l'incipit per concludere l’album con uno stesso riferimento lirico, “It’s all gone, it’s all gone”. È una sorta di canto alla Luna, ideato osservando il nostro satellite placido e sereno in occasione del cinquantenario dell’allunaggio, mentre sulla Terra tutto sta cambiando in peggio troppo velocemente. Dieci minuti, di cui la metà strumentali, per lasciare andare in ultimo un album carico di malinconia e suggestioni oscure, ma che permette alla band di ritrovare una sua nuova affascinante vitalità.

Pronti al peggio 

La lunga incubazione di “Songs Of A Lost World” ha permesso a Robert Smith e soci di bilanciare tutte le sfaccettature di un album monolitico e coeso, al punto da farne un ritorno a livelli tali come non si vedevano da troppi anni nella pur centellinata produzione discografica di casa. Cantano di abbandono e dolore, ispirandosi a mood già collaudati, eppure nel raccontare trame a tratti a senso unico, la band dimostra tutta l'esperienza accumulata in 45 anni di onorata carriera. Insieme al leader, che ha scritto e arrangiato i brani, è presente la formazione live degli ultimi anni, ovvero il bassista Simon Gallup, che nella lunga storia dei Cure è elemento fisso con sole poche sparute “lacune”, i fidati sodali Roger O’Donnell alla tastiera e Jason Cooper alla batteria, e il chitarrista Reeves Gabrels, già alla corte di David Bowie.

Il mondo che qui raccontano è quello in cui non si ritrovano più, drammaticamente ingabbiato nei suoi tanti mali moderni. Abissi profondi, che saturano liriche e note di una rovina prossima a cui non ci si può sottrarre. Di certo non potendo ingannare la morte, meglio essere preparati.

Tracklist

01. Alone (06:48)
02. And Nothing Is Forever (06:53)
03. A Fragile Thing (04:43)
04. Warsong (04:17)
05. Drone:Nodrone (04:45)
06. I Can Never Say Goodbye (06:03)
07. All I Ever Am (05:21)
08. Endsong (10:23)
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