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«MR. MORALE & THE BIG STEPPERS - Kendrick Lamar» la recensione di Rockol

“Mr. Morale..” lo specchio intimo e rivelatore di Kendrick Lamar

L'atteso quinto disco del rapper californiano è un'articolata e complessa seduta di analisi.

Recensione del 16 mag 2022 a cura di Michele Boroni

Voto 9/10

La recensione

Diciamo subito le cose come stanno. Per contenuti, tecnica, coraggio, scelta delle collaborazioni, ricerca musicale e capacità di raccontare, Kendrick Lamar gioca un campionato a parte nel rap odierno, ma oserei dire anche nella musica tutta. Se c'era bisogno di confermarlo questo suo quinto doppio disco ufficiale “Mr. Morale & The Big Steppers” lo fa nel migliore dei modi: sicuramente non quello più semplice, perché è solo attraverso canzoni articolate nei testi e nelle basi che si riesce a spiegare quella complessità capace di mescolare dolore personale e trauma collettivo, l'essere contemporaneamente vittima e carnefice, in una sorta di flusso di coscienza molto vicina a una seduta di analisi. 

Il seguito ideale di “Good Kid, M.A.A.D. City”

Se dobbiamo collocare questo suo ultimo disco all'interno della sua breve ma intensa discografia, possiamo classificarlo come l'ideale seguito del suo disco del 2012 che lo ha fatto conoscere al grande pubblico  “Good Kid, M.A.A.D. City” e questo fin dalla copertina: in quel disco c'era una polaroid di vita ordinaria a Compton, sobborgo sud di Los Angeles, con gli zii che mettono le pistole sul tavolo della cucina e il piccolo Kendrick seduto in grembo. 
Nella cover di “Mr. Morale & Big Steppers” in una foto, sapientemente costruita da Renell Medrano, Kendrick con una corona di spine in testa, tiene sua figlia in braccio, e una pistola dietro la schiena, mentre sul letto la sua compagna si prende cura del loro ultimogenito in una stanza piena di fori di proiettili. Anche se K-dot non vive più a Compton, continua a fare i conti e a descrivere i propri traumi infantili.
Se in “To Pimp a Butterfly” ha affrontato i grandi temi che affliggono la comunità afroamericana in una sorta di poema al suo idolo Tupac Shakur, e in "DAMN." ha declinato tutto questo in un più complesso discorso biblico su tentazione e dannazione (che gli è valso anche il Premio Pulitzer nel 2018), in questo suo ultimo lavoro torna all'autobiografia e all'introspezione, affrontando le ferite della sua infanzia ma anche il suo ruolo di artista, partner e padre. Come in “Good Kid” mette quindi la propria famiglia e se stesso, con tutte le sue contraddizioni, come soggetto principale del racconto. Dopo anni passati a guardare il mondo come uno specchio per mostrarci il razzismo strutturale e le crepe nella società civile, Lamar ora gira lo specchio su se stesso. 

Eclettismo musicale e collaborazioni inusuali 

L'album è stato anticipato cinque giorni prima da “The Heart part 5”  accompagnato da un video musicale che utilizzava la tecnica del morphing in chiave “deep fake” con il suo volto che si trasformava in icone controverse e contraddittorie della comunità nera, da OJ Simpson a Kanye West, da Jussie Smollett (l'attore che ha mentito su un attacco razzista e omofobo) al compianto Kobe Bryant. La canzone, magistralmente orchestrata sulla base di “I want you” di Marvin Gaye, sembrava aprire la strada a un disco musicalmente più “facile” e alla portata di tutti: invece, non solo la canzone non è contenuta nel disco (così come le altre canzoni della serie "The Heart" non hanno mai fatto parte di nessun disco) ma Lamar preferisce prende una strada più contorta, regalandoci il disco musicalmente più eclettico, in cui il suo rap sciama e straborda in tutti i generi e stili di musica contemporanea. L'iniziale “United in Grief” da questo punto di vista ne è l'esempio lampante: accordi isolati di pianoforte, rullate espressioniste, beat che lasciano senza fiato, il jazz d'avanguardia che si presta al rap di Lamar in cu riflette sulla banalizzazione della morte e della violenza. Ma ci sono anche pezzi più pop come “Die Hard” con il dolce ritornello della cantante delle Barbados Amanda Reifer, i ritmi leggeri di “Silent Hill”, la trap/drill di “N95” ed echi di N.E.R.D. (“Mr Sober” prodotto da Pharrell);  tuttavia la maggior parte delle tracce  hanno il rap di Lamar in prima linea, richiedono un ascolto attento e non ci sono sample particolarmente riconoscibili. Il pianoforte è sicuramente lo strumento che ricorre di più in tutto il disco perché  permette di dare allo stesso tempo una tensione e una classicità che Lamar con questo disco vuole ricercare.
A differenza  di altri suoi colleghi e anche dei suoi precedenti dischi, Lamar non cerca la collaborazioni di altri rapper da classifica, ma invece  va a ricercarli o tra vecchie glorie (Ghostface Killah dei Wu-Tang Clan), giovani colleghi (Kodak Black e Baby Keem) o in mondi sonori lontani ma attigui per profondità espressiva come Sampha o Beth Gibbons dei Portishead che partecipano alle canzoni forse più intense e significative del disco, oltre a voci puramente recitative come Taylor Paige. 

Testi come specchi vulnerabili 

Ma ovviamente sono i testi - che vanno ascoltati, letti e tradotti più volte per poter essere assorbiti – e le immagini che evocano ad essere il punto focale delle composizioni di Lamar. 
Come già detto, il rapper originario di Compton è lontano anni luce dalle solite preoccupazioni del mondo hip-hop, ma continua invece il suo percorso di introspezione (tra le voci presenti nel disco c'è anche quello di Eckart Tolle, maestro spirituale e autore del bestseller “The power of now”), questa volta ancora più intimo in cui prende anche le distanze da chi lo ha sempre voluto etichettare come una voce generazionale. 
I'm not in the music business, I been in the human business” rappa Lamar in “Purple hearts” per dire che in fondo lui cerca di trattare i problemi che tutti gli adulti affrontano, dalle relazioni (il recitato “We cry together”) all' autocoscienza, dalla pandemia, alla società che ti impone certi ruoli, atteggiamenti e schemi mentali (come la cancel culture, da cui prende le distanze in più di una canzone), ovviamente tutto questo calato dal suo personalissimo punto di vista e dalle sue esperienze: dall'affrontare il tema – con sobrietà - della madre abusata da giovane (“Mother I sober”), alle pause forzate e il blocco dello scrittore ("La mia verità è troppo complicata per essere nascosta ora / Posso aprirmi? È sicuro o no? / Ho un po' paura, ti relazioni o no? / Abbi un po' di fede, potrei prendermi il mio tempo" in “Die Hard”) alla religione (“Shut the fuck up when you hear love talkin’ / If God be the source, then I am the plug talkin’” "Chiudi quella cazzo di bocca quando senti parlare d'amore / Se Dio è la fonte, allora io sono il pusher parlante" in “Purple Hearts” ). Ma ci sono anche i racconti della zia che diventa uomo e del cugino transgender, che ha difeso da un predicatore "Il giorno in cui ho preferito l'umanità alla religione" (“Aunties Diaries") facendo però anche autocritica su suoi comportamenti omofobici e transfobici, come pure delle donne bianche scopate e denigrate (in “Worldwide Steppers”).
Come scrive giustamente Giovanni Ansaldo su Internazionale, la grande differenza tra Lamar e il resto dei rapper è proprio la sua vulnerabilità, in cui non dimentica la sua vita di strada a Compton e quindi certi suoi atteggiamenti, ma anche il suo lato spirituale e profondamente umano, che rende il suo discorso decisamente più complesso e letterario. 
E non a caso lascia per ultimo “Mirror” in cui sotto dei synth da colonna sonora canta “I choose me, I'm sorry” e si allontana con un ultimo “Do yourself a favor and get a mirror that mirror grievance” "Fai un favore e prendi uno specchio /  Quello specchio di risentimento". 

 

Tracklist

#1
01. United In Grief (04:15)
02. N95 (03:15)
03. Worldwide Steppers (03:23)
04. Die Hard (03:59)
05. Father Time (feat. Sampha) (03:42)
06. Rich - Interlude (01:43)
07. Rich Spirit (03:22)
08. We Cry Together (05:41)
09. Purple Hearts (05:29)

#2
01. Count Me Out (04:43)
02. Crown (04:24)
03. Silent Hill (03:40)
04. Savior - Interlude (02:32)
05. Savior (03:44)
06. Auntie Diaries (04:41)
07. Mr. Morale (03:30)
08. Mother I Sober (feat. Beth Gibbons of Portishead) (06:46)
09. Mirror (04:16)
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