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Dinosauri sì, ma liberi... Rockol pubblica la trascrizione dell'intervista esclusiva realizzata per 'Hobo'...

Dinosauri del rock? Non proprio, anche se alzi la mano chi non ha mai sentito o canticchiato almeno una volta “The logical song”, uno di quelle canzoni entrate nell’immaginario collettivo…
Rockol pubblica la trascrizione completa dell’intervista esclusiva realizzata da Massimo Cotto ai Supertramp per "Hobo", andata in onda lunedì 8 e mercoledì 10 aprile, sulle frequenze di Radio Rai 1. In occasione del ritorno sulla scena con l’album intitolato “Slow motion”, il leader Rick Davies, ripercorre la vicende salienti della carriera dello storico gruppo, formatosi nel 1969.


Il titolo e la copertina sembrano suggerire il rallentamento, la voglia di prendere più tempo per noi. Viviamo tempi veloci e difficili.
È una breve riflessione sulla nostra fretta, l’accanirsi ai cellulari, mentre la televisione cambia inquadratura ogni due secondi, come in un immane videoclip. La fretta domina, privandoci della gioia di godere il momento. Questo era il pensiero di partenza: un elogio della lentezza, perché, altrimenti, non sarai mai in grado di godere di nulla.

Anche l’industria musicale pare andare troppo velocemente. I gruppi vanno e vengono, un successo e poi l’oblio. È difficile resistere e costruire una carriera, come accadeva un tempo.
Sì. Lo stato di salute dell’industria musicale è peggiorato quando il volume di affari è aumentato a dismisura. Da qualche anno si chiede agli esordienti di trasmettere la loro forza in un istante, perché, altrimenti, potrebbero non avere una seconda possibilità. È dura impostare una carriera sapendo che devi immagazzinare ogni cosa in pochi mesi, quando sarebbe più giusto scoprire i tuoi talenti lungo il cammino, mentre si forma il repertorio e riesci a conferire profondità al tuo lavoro. È tutto troppo istantaneo, usa e getta.

”Slow motion” si tinge di colori jazz e di improvvisazione. C’è una canzone, “Dead man’s blues”, che pare una jam session all’impronta.
Sicuro. Riflette le nostre influenze. Ci sono sempre state, a dire il vero, ma in misura minore, digressioni jazz, blues e spazio per gli assoli, magari di chitarra o tastiere, come nel primo disco.

Durante uno vostro recente showcase, avete eseguito molti brani blues, da “I got my mojo working” a “Hoochie coochie man”. Quanto è stato importante, il blues, nella tua vita?
Non avrei mai conosciuto la musica, senza il blues. È stato il blues la chiave d’accensione per mettere in moto le nostre macchine e non solo per me, ma per ogni musicista della mia generazione, dai Beatles agli Stones. È stato il blues a metterci voglia di comprare una chitarra per poter esprimere quel che avevamo dentro. Se escludi il blues, fare musica non ha più senso, a meno che tu non sia un musicista classico. Mi piacerebbe incidere un disco strettamente blues, anche se non lo farei alla vecchia maniera di Muddy Waters o B.B.King; proverei a cambiare gli arrangiamenti, ad adattarlo. Ma credo che i Supertramp potrebbero essere una fantastica blues band.

Mentre preparavo l’intervista, ascoltavo “Breakfast in America”, e mi sono sorpreso nel constatare che il ritornello di “The logical song”, pare adatto a questi tempi: “Ti prego, dimmi che cosa abbiamo imparato, so che suona assurdo ma per favore dimmi chi sono”.
Che cosa hai imparato in questi trent’anni, chi sei e chi sono i Supertramp?

Oh, Dio. Penso di aver imparato abbastanza, ma più di tutto la consapevolezza che non dobbiamo fingere di essere ciò che non siamo. A volte è capitato. Ho imparato che, artisticamente parlando, è necessario divertirsi ed essere felici e soddisfatti di ciò che stai facendo. So che è banale, ma a volte è difficile, perché le pressioni intorno a te sono sempre tante, come tante sono le persone, dai discografici ai manager. Ognuno di loro è sicuro di aver visto la strada giusta per te, e non è sempre così. Devi fare solo ciò in cui credi, senza badare agli altri. Io, non sempre ci sono riuscito. Avrei dovuto mediare di meno ed essere più deciso. Chi sono i Supertramp? Dei vecchi dinosauri ancora liberi nelle strade, non chiusi in un museo.

Hai subito pressioni, per questo ultimo disco?
Non esattamente. Ho avuto molto tempo a disposizione. A volte è stato estenuante, perché, da quando viviamo lontani, mentre un tempo le nostre abitazioni erano molto vicine, non avevo nessuno con cui confrontarmi. Tutto il peso era su di me. Ho costruito le canzoni al computer, suonando la batteria elettronica, fino a ottenere una versione miniaturizzata del disco, replicando ogni strumento: tastiere, sassofono, tromba, chitarra. Il bello della tecnologia è proprio questo, la possibilità di campionare suoni diversi. Poi, ho presentato il risultato alla band, che ha corretto, criticato, approvato. E poi registrato. Così abbiamo lavorato, stavolta.

sei trasferito a New York, dopo una vita a Los Angeles.
Io e mia moglie abbiamo vissuto a Los Angeles per 23 anni. Lei è di Long Island, per questo ci siamo trasferiti lì. Ci troviamo meglio, forse perché Los Angeles non è il tipo di città dove è bello vivere a lungo, a meno che tu non sia nato lì.

Hai conosciuto il cambio delle stagioni. A Los Angeles non esiste.
Vero. È questo è un male, perché ti confina in uno strano limbo, una “twilight zone” dove Natale non sembra Natale, dove l’inverno non arriva mai. A L.A., l’inverno è il momento migliore, perché fa un più freddo che negli altri mesi dell’anno.

Rimpianti, errori?
Di sicuro. Non ho mai studiato abbastanza per diventare un buon pianista, anche perché pensavo di concentrarmi sulla batteria. Sono molto istintivo, ma non possiedo la tecnica. Suono con il cuore, appoggiandomi al blues. Ma alla gente sembra piacere questo suono istintivo più della batteria. Ogni musicista coltiva il suo sogno, da ragazzo, ma deve anche saper cogliere le occasioni che la vita gli offre; a volte, pensi di essere nato per andare in un luogo e finisci a passare la tua vita da un’altra parte. È così che io ho abbandonato il mio primo amore, la batteria, per il pianoforte, e che ho cominciato a cantare, cosa che, agli inizi, facevo quasi per nulla. Solo ora, dopo trent’anni, ho imparato davvero a cantare. Ho imparato lungo il cammino.

Cambieresti qualcosa, nel tuo passato, ne avessi l’opportunità?
Cambierei qualcosa? Potessi tornare agli inizi, cercherei di imparare a parlare la lingua della musica con maggior fluidità. Ho passato i primi anni convinto di sapere abbastanza, mal consigliato dal successo. Questo è il mio rimpianto: non essere stato sufficientemente umile da mettermi nelle mani di qualcuno, per imparare.

Molto è cambiato, dal primo disco. I Supertramp hanno attraversato, bene o male, molti decenni. Hai voglia di fare un Bignami dei Supertramp
Avevo 21 anni quando iniziai a fare il musicista a tempo pieno, pur senza esserne in grado. Suonai con una band sconosciuta per tre anni, i Joint, in giro per l’Europa, senza un manager né una casa discografica. In Italia conoscemmo il punto più brutto della nostra storia. Per sei mesi rimanemmo a Roma, a suonare al Titan. Non potevamo andarcene: il nostro pullmino si era scassato, ci avevano rubato gli strumenti, i soldi erano finiti. Per disperazione, ce ne andammo in Svizzera, a Ginevra, dove incontrammo un signore che ci prese sotto la sua ala protettiva: la sera suonavamo nel suo club, di giorno lavoravamo alla colonna sonora di un film. Nel 1969, distrutti dalle difficoltà, ci sciogliemmo, ma un ricco miliardario di origine olandese che viveva appena fuori Ginevra, mi convinse a riprovare. Voleva formassi un altro gruppo: misi un’inserzione sul Melody Maker e incontrai gli altri ragazzi. Così nacquero i Supertramp, nel 1969. Impiegammo tre album a trovare la formazione giusta e il successo. Dal 1974, con “Crime of the century”, al 1983, anno in cui Roger Hodgson lasciò la band, fu un trionfo continuo. Decidemmo di continuare anche senza di lui, fino a oggi.

Che cosa ti aspetti da questo disco e dal futuro?
Spero la gente possa apprezzare la nostra musica e stare bene, credo sia un buon disco, capace di spingere il nostro pubblico all’eccitazione: non è necessario bere né drogarsi: l’eccitazione è tutta nelle canzoni. Noi stessi siamo i primi a esserne felici. Ci prepariamo per i concerti; avremo bisogno di un po’ di tempo, almeno un paio di spettacoli per capire quali canzoni ci faranno sentire più a nostro agio.

Ultima domanda: scegli un bel momento e un brutto ricordo.
Il momento da ricordare è il nostro primo show dopo otto anni di assenza, nel 1997. Tornammo sulle scene con un nuovo disco, “Some things never change”, e una nuova etichetta, la Emi. Non sapevamo chi e che cosa avremmo ritrovato, dopo tanto tempo. L’apertura del tour fu in Svezia. Fu fantastico: la gente ci accolse così calorosamente, impazzì di entusiasmo. Per noi fu la prova che non dovevamo smettere e nemmeno limitarci alla sopravvivenza, per raggranellare qualche soldo. Sapere che il feeling vitale, il rapporto con la gente non si era interrotto: quello è il momento che salvo, più di ogni altro, più del successo di “Breakfast in America”. Un momento che si è ripetuto in tutto il tour. Il momento peggiore? La nostra prima volta in Brasile. Non smetteva di piovere, metà degli strumenti non funzionavano; come non bastasse, arrivammo senza aver mai provato, perché, all’ultimo momento, era saltato il mini tour di tre settimane in Australia. 75.000 biglietti venduti, nel teatro del carnevale, a Rio de Janeiro. Per colpa della pioggia, salimmo sul palco all’una di notte, con tre ore di ritardo. La gente era distrutta, bagnata fino al midollo. Aspettava un nostro concerto da vent’anni. Suonare in Brasile è molto difficile, perché, se non ti arrivano i soldi in anticipo, li perderai per sempre: una volta sul posto, farsi pagare è terribilmente dura. Mi sentivo terribilmente depresso. Il mio momento più brutto.

Ce ne saranno altri, in questo tour?
Si’, ma chissenefrega.

(Massimo Cotto)

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