Di solito il cantante pop medio può contare su una buona riserva
personale di esibizionismo che si traduce in una gamma di comportamenti che
vanno da una particolare estroversione fino al divismo eccessivo e ridicolo.
Tjinder Singh, voce, chitarra e mente dei Cornershop è il prototipo del
front-man riluttante. Sul palco, è l’esatto opposto dei cantanti che
chiedono al pubblico “Do you feeeeeel alriiiiiiight?” e durante gli incontri
coi giornalisti ha sempre un tono quieto e modi compassati, anche quando le
spara piuttosto grosse: a registratore spento, ha detto con tono serafico
che ci vorrà un po’ di tempo prima che i Cornershop abbiano un grande
impatto sul pubblico e probabilmente saranno veramente al massimo verso il
2015. Insomma, Singh bilancia la totale mancanza di esibizionismo con una
ferrea convinzione delle qualità della sua musica e il nuovo album
“Handcream for a generation” gli fornisce abbastanza argomenti per risultare
credibile. Quanto al resto, vedremo cosa succederà nel giro di 12 anni.
In “Handcream for a generation” ci sono tracce di rock e disco anni ‘70. Avete lavorato all’album con questa precisa intenzione oppure è una direzione uscita nel corso delle registrazioni?
Beh, il disco è un po’ più elettrico in effetti. Ma l’unica idea precisa con cui lavoriamo è quella di non suonare sempre allo stesso modo. Fin dal nostro primo EP abbiamo cercato di fare canzoni diverse le une dalle altre, per rendere interessanti i nostri dischi, sia per noi che per chi ci ascolta. E’ quello che abbiamo voluto fare anche questa volta, tutto qui. Non c’era l’intenzione di fare un disco più rock, c’è un pezzo reggae sull’album che per me è molto importante. Penso che questo lavoro sia simile al precedente perché anche “When I was born for the 7th time” era molto vario.
Però nell’album precedente il tratto più distintivo erano le influenze indiane mischiate con influenze hip-hop. Adesso vi muovete in una direzione simile ma non è proprio la stessa cosa.
Sì, hai ragione. Qualcuno ha detto che ci sono meno influenze asiatiche, il che un po’ mi rattrista perché probabilmente ce ne sono di più. “Wogs will walk” ad esempio parla della vita degli asiatici, abbiamo usato ancora la lingua punjabi... E comunque le canzoni sono tutte scritte da un asiatico, come può esserci meno Asia nell’album? Semmai, il disco è diverso in termini di produzione, penso che sia molto migliore rispetto al passato, con suoni più curati ma senza perdere naturalezza. Penso che sia una caratteristica che ci rende diversi da gran parte dei gruppi in circolazione.
Come è nata l’idea di tentare per “Spectral mornings”, il remix più lungo di tutti i tempi, e di farlo ascoltare sul vostro sito web?
Non so nemmeno se sia il più lungo remix mai fatto. Ci sembrava una buona idea fare un mix di 24 ore della stessa canzone, ma non ci interessava il Guinness dei primati. Il pezzo si presta a venire esteso così tanto, la tecnologia ci dà la possibilità di tentare un esperimento simile e il fatto di metterlo sul web è un modo per promuovere il nostro sito. L’intenzione era comunque quella di fare qualcosa di interessante dal punto di vista musicale usando la tecnologia. Noi apprezziamo lo stile di produzione degli anni ‘70 ma utilizziamo anche molta tecnologia, è questa che ci ha consentito di continuare a lungo aprendoci molte possibilità diverse, ci ha permesso di non limitarci a essere una guitar-band.
Dal vivo adesso avete una maggiore coesione rispetto al passato. Prima tendevate la tendenza a improvvisare di più e a volte sembravate un po’ dispersivi...
Anche in questo caso, volevamo fare un passo avanti. In effetti però non ci abbiamo pensato sopra molto. Ci teniamo a fare dei buoni concerti, tutto qui.
Come cantante, sul palco hai il ruolo principale. Però il tuo stile non è quello del front-man trascinatore, mantieni sempre una presenza molto discreta. A volte sembri quasi a disagio nell’esibirti.
Non mi sono mai piaciuti i front-man chiassosi e comunque io sono un po’ nervoso, non mi comporto in modo da attirare l’attenzione su di me. Il fatto è che non ho mai veramente desiderato suonare in un gruppo.
E come mai ti ci sei ritrovato?
E’ accaduto molto lentamente e col tempo ci siamo trovati di fronte a opportunità che sarebbe stato stupido non raccogliere. In effetti, mi sento piuttosto fortunato a essere qui, anche perché eravamo arrivati a un punto in cui pensavo che non avremmo più fatto un tour.
Cosa era successo?
Come ti ho detto, la mia vita non ruota intorno al fatto di essere un musicista. Non sono il tipo introdotto nell’industria musicale che si è scelto il lavoro di suonare. Noi suoniamo perché vogliamo cambiare la musica. Uno dei motivi per cui abbiamo continuato è che in Inghilterra i giornali hanno trasformato i gruppi indiani in un fenomeno senza darci alcun credito per essere stati i primi a cominciare nel ‘92, con un’etichetta indipendente. Poi sono arrivati i gruppi messi sotto contratto dalle major e hanno cercato di rubarci la scena. Volevamo rimettere le cose al posto giusto e che fosse riconosciuto che noi siamo stati i primi.
Il fatto di lavorare con una indie non vi ha aiutato in questo: un major ha mezzi promozionali più massicci.
Sì, ma preferisco lavorare con un’etichetta piccola che ha meno soldi ma ti lascia libero di fare quello che vuoi. E comunque molti gruppi non riescono a sopravvivere con una major.
Comunque molti musicisti asiatici si sono imposti sulla scena inglese. Si può parlare di una scena?
No, assolutamente. Non c’è una scena, è un bluff, un falso, una montatura. Non ha nulla da dire e si merita di morire. Non credo alle scene, si tratta solo di manovre di marketing.
Dopo il grande successo di “Brimful of Asha” avete stranamente lasciato perdere il nome Cornershop per pubblicare l’album successivo come Clinton. Questo probabilmente ha creato un po’ di confusione.
Il disco dei Clinton non è stato promosso, anche se è uscito per la Virgin. Il nuovo album dei Cornershop sta spingendo molta gente a riconsiderare il lavoro dei Clinton. Per me, musicalmente i due gruppi sono esattamente la stessa cosa, l’unica differenza sono le lettere che seguono la C iniziale. Comunque, penso che sia stata una buona mossa per me il fatto di far uscire un album con un altro nome e allontanarmi un attimo da tutto quello che c’è da fare con i Cornershop. Quando ti prendi carico di tutto quello che riguarda il gruppo, ci sono un sacco di cose da fare: occuparti dei video, della promozione con la stampa, ci sono problemi di logistica quando devi provare o registrare... Noi facciamo tutto da soli, poi io mi occupo della produzione, scrivo le canzoni e ci sono un mucchio di altre cose. Aggiungi che curiamo una nostra etichetta e capisci che il lavoro è tantissimo. Inoltre, prima di realizzare il nuovo disco ho avuto un figlio e i miei genitori sono morti nel giro di qualche mese: c’era molto stress, pressioni personali e lavorative.
Quindi, volete mantenere il controllo su tutto quello che fate.
Sì, abbiamo sempre sentito il bisogno di farlo.
Che piani avete dopo l’uscita dell’album?
Non ne ho proprio idea.
(Paolo Giovanazzi)