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L'ex leader dei Grant Lee Buffalo racconta il nuovo disco, 'Mobilize'...

Negli anni ’90 i Grant Lee Buffalo furono uno dei più apprezzati gruppi americani. Trainati dal leader Grant Lee Phillips, proposero una musica radicata nel cantautorato, ma rivisitata con il piglio del miglior rock d’autore.
La storia del gruppo è terminata nel 1999, ma solo oggi il Phillips si riaffaccia come solista. Lo scorso autunno è uscito per un piccola etichetta indipendente, la Zoe, gruppo Rounder, “Mobilize". Un disco inciso in totale solitudine, con l’aiuto di qualche “macchina” ma sembre ben radicato nella tradizione americana, che ora esce anche in Italia. Abbiamo incontrato Phillips, ripercorrendo la sua carriera musicale, i i suoi progetti.


Partiamo dai Grant Lee Buffalo, che si sono sciolti ormai tre anni fa. Come sono arrivati al capolinea?
Vorrei avere una grande storia drammatica da raccontarti... Credo che semplicemente il gruppo si sia gradualmente trovato in una empasse da cui non è più uscito. Come Grant Lee Buffalo abbiamo avuto una storia lunga e interessante, ma a un certo punto i nostri interessi hanno iniziato a spostarsi verso una dimensione più individuale e personale. Le nostre vite sono cambiate nel corso degli anni. Con loro ho imparato molto e molto mi sono divertito. Se non avessi passato tanto tempo in un gruppo, oggi non sarei qua a presentare un mio disco solista.

I Grant Lee Buffalo, verso la metà degli anni ’90 sono stati molto amati dalla critica e dal pubblico rock. Rimpiangi qualcosa di quel periodo?
Non posso dire di avere rimpianti, né che vorrei vivere ancora in quel periodo. Ma dall’altro lato si ricordano le esperienze più importanti, si cerca di trarne il più possibile per andare avanti e vivere il presente. Mi sembra che tutto sia successo molto in fretta, soprattutto qui in Europa. A casa nostra, in America, ci abbiamo messo più tempo farci conoscere; gli europei, invece, sembravano avere trovato in noi qualcosa di unicamente americano… forse per questo motivo avevamo più seguito qui che nel nostro paese d’origine.

Quando hai iniziato a pensare ad una carriera solista fuori dal gruppo?
Beh, il percorso intrapreso dalla mia carriera è stato indicato dal mio bisogno di scrivere e di esplorare tutte le idee che mi frullavano in testa. Ho scritto il 100% del materiale dei Grant Lee Buffalo, per cui è stato naturale continuare in questo modo da solo. Forse non ci ho pensato subito, appena il gruppo si è sciolto nel 1999; ma appena ho accettato l’idea che mi dovevo lasciare tutto alle spalle e andare avanti, che non sarei più stato associato al gruppo, ho iniziato a pensare a come proseguire da solo.

Nel tuo caso, il termine “disco solista” va preso letteralmente, perché nell’album suoni praticamente ogni strumento…
Ho passato gli anni che hanno portato alla registrazione di “Mobilize” sperimentando, spogliando e rivestendo tutte le canzoni che scrivevo per arrivare al cuore della melodia. Alla fine sono riuscito ad arrivare ad una lista di 12-13 canzoni sulla quale concentrarmi. Penso che il mio lato più estremista abbia pensato che se volevo definire questo disco un album solista, allora doveva rappresentare tutto ciò che io e soltanto io, da solo, posso offrire.
Quando lavoravo con il gruppo era una cosa diversa, era un compromesso con altre persone. Questa volta avevo bisogno di essere coinvolto intimamente nel progetto, senza interferenze. La prossima volta potrei affrontare la registrazione in modo diverso.

Nel disco unisci il tuo songwriting tipicamente americano con suoni elettronici: loop, batterie campionate, etc. Com’è nata questa sperimentazione inedita per la tua musica?
Beh, ho sempre prestato orecchio a musiche diverse da quella che io suonavo e che, come dici tu, suona “americana”. Mi ha sempre affascinato ed ispirato un’artista come Bjork, così coraggiosa nel creare una musica che è totalmente attuale. E’ un’artista che costringe musicisto come me, molto legati alla tradizione, a mettersi in gioco, a curiosare. I Grant Lee Buffalo avevano la tendenza a creare album acustici o elttettrci, ma comunqe in modo molto organico. E credo che poco per volta questa ricerca dell’organicità si sia spostata verso altri suoni, magari quelli prodotti da un computer…

Altri cantanti come David Gray hanno battuto questa stessa strada, quella della fusione tra tradizione e innovazione…
Mentre stavo lavorando al mio disco mi raccontarono di David Gray, che aveva sperimentato nella mia stessa direzione, producendo un disco “ibrido” come il mio. Proprio per questo motivo mi ripromisi di non ascoltare la musica di David fino a quando non avessi finito il mio disco. Che devo dire? E’un grande artista che ha fatto un grande album… Abbiamo avuto la stessa idea. Mi piace pensare che, pur separatamente, abbiamo fatto due album attuali, che non avrebbero potuto essere incisi dieci anni fa...

Dopo avere lavorato con i Grant Lee Buffalo per delle etichette “Major”, il tuo primo disco solista esce per una “indie” del gruppo Rounder. Come ti trovi in questa situazione?
Quando nel 1992 i Grant Lee Buffalo hanno firmato per un’etichetta major, la Warner, avvenne tramite la Slash, che al tempo aveva messo sotto contratto gruppi come gli X, i Violent Femmes, i Germs… Quindi un’etichetta major con mentalità indipendente. Ma la mia esperienza è che più l’etichetta è piccola, maggiore è l’attenzione che artisti come il sottoscritto o come i Grant Lee Buffalo possono ottenere. E’ una filosofia: le mie idee non sono propriamente mainstream e farebbero fatica ad attecchire in strutture orientate troppo al mercato…

Qualche anno fa hai scritto un libro di poesie haiku insieme a Michael Stipe dei R.E.M. Com’è nata quell’esperienza?
Nel ‘95, eravamo in tour con loro e Stipe ad alcuni amici lanciò questa sfida di scrivere una breve poesia al giorno; un haiku, appunto, una forma che deriva dalla tradizione giapponese. L’idea era quella di cogliere in poche strofe un aspetto minimale della realtà quotidiana: un approccio ti aiuta ad aprire la mente verso le piccole cose che ti circondano… E’ stato divertente, anche se forse ero il peggiore del gruppo, forse solo Stipe faceva peggio di me. Comunque diventò un libro pubblicato dalla Soft Skull Press in america come “The Haiku year”.

Parlando di collaborazioni più recenti, hai partecipato al progetto “One giant leap”.
Anche in questo caso sono stato coinvolto nel progetto da Stipe: mi ha telefonato per chiedermi se volevo partecipare a questo lavoro, un collage globale di suoni, immagini, musiche e canzoni. Mi è sembrato molto intrigante. Jamie Catto, membro dei Faithless e mente del progetto, ha girato il mondo per raccogliere interviste e contributi: è venuto a casa mia, mi ha proposto qualche accordo sui quali io ho scritto una melodia e un testo, che abbiamo registrato nella mia cucina. In un’ora e mezza abbiamo buttato le basi di “Racing away”, che poi è cresciuta con la partecipazione di altri musicisti.

Quali sono i progetti futuri?
Già da aprile, inizierò a preparare un tour. Dovrei passare dall’Italia in estate, magari in qualche festival…

(Gianni Sibilla)

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