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Tutto quello che non c’era, adesso c’è. La seconda parte dell’intervista di Rockol...

“L’ironia può trasformarsi in una maschera dietro la quale nascondersi”, racconta Manuel Agnelli con la faccia tirata. Basta aprire la finestra, guardare la luce che tinge di colori il cielo e riempire i polmoni di aria fredda fino a provare smarrimento per rendersi conto che qualcosa sta cambiando. Qualcosa che prima non c’era. Eppure non è facile sorridere in un paese come l’Italia, dove la gente è abituata “a sdrammatizzare qualsiasi tipo di situazione con l’ironia”, come se nulla fosse davvero importante. Non è semplice farlo, nemmeno se hai realizzato un disco come “Quello che non c’è”, dove non ci sono scuse, ipocrisie e autocompiacimenti. Gli Afterhours dicono quello che hanno da dire senza retorica, senza slogan prefabbricati per sorprendere facilmente. Bianco su nero. “Avevamo delle risposte, ora non ci sono più”, ci dicono Manuel Agnelli e Giorgio Prette. Semplice. Illuminante. Come il fulmine che nel cielo viola acido, solcato da nuvole scure e rabbiose, colpisce un palo della luce sulla foto di copertina di “Quello che non c’è”. Quasi fosse un presagio infausto, in agguato all’orizzonte. Poi, le gocce di pioggia cominciano a cadere pesanti sui nostri dubbi e su quelli degli Afterhours. Come piccoli rimorsi che, ancora, cercano redenzione.
Ecco la seconda parte dell’intervista con Manuel Agnelli e Giorgio Prette. La prima parte è stata pubblicata venerdì 5 aprile.


Si dice che le cose migliori vengano dalla sofferenza: se un artista è felice, ciò che riesce a creare rimane solo in superficie, senza arrivare davvero in profondità. Siete d’accordo?
Giorgio Prette: Penso che un certo tipo di spirito venga fuori più che dalla sofferenza da periodi traumatici. Ciò è successo nella lavorazione di “Hai paura del buio?” e “Quello che non c’è”.
Manuel Agnelli: In “Non è per sempre” stavo peggio che in “Hai paura del buio?” e “Quello che non c’è” e credo che “Non è per sempre” sia inferiore agli altri due dischi. Secondo me il fatto di star male ti può dare una maggiore intensità, ma se non hai la lucidità per tirarla fuori va sprecata. Se stai veramente male non hai nemmeno voglia di scrivere canzoni. In definitiva star male ti serve a crescere e a capire le cose, però poi per metterle in pratica hai bisogno di stare un po’ meglio. Penso comunque che certi artisti abbiano fatto cose molto gioiose e solari indipendentemente dalla loro situazione. Ho sempre odiato l’idea bohémienne per cui l’artista deve morire di tisi a trent’anni: penso sia una cazzata enorme che ha influito negativamente sulla nostra generazione, essendo una visione molto romantica dell’arte. I più grandi artisti erano in carne, facevano orge o erano di buona famiglia, come Duchamp, o erano ricchi e basta come Picasso e Dalì.

E’ anche vero però che molti artisti erano dei derelitti che non hanno mai visto il successo, almeno non prima della morte…
M: Sì, è vero, ma persone come Leonardo Da Vinci erano molto ricche e passavano il tempo a scoparsi i ragazzini. La creatività non è data dalla sofferenza, ma dalla sensibilità che ti permette di rielaborare le cose. E’ la sensibilità che ti dà l’urgenza di fare o meno. Pollock, ad esempio, poteva permettersi di usare un metodo magico per creare e quindi non aveva bisogno di trasporre fatti personali in quello che faceva. Bukowski era esattamente il contrario. Altri artisti non hanno vissuto, ma avevano una vita interiore grandiosa che li portava a creare cose bellissime.

C’è qualche particolare lettura che hai fatto mentre componevi le canzoni?
M: No. Ho letto Borges. Non conosco lo spagnolo, ma sul libro c’erano entrambe le versioni e credo che tradotto invecchi tantissimo. Forse in qualche modo ho preso da lui questa sorta di oscurità genetica.

E musicalmente?
M: Nemmeno. Purtroppo e per fortuna credo che gli Afterhours siano delle persone che hanno letto e ascoltato moltissime cose. Ma non mi succede più di essere influenzato da un bell’album. Ci sono dischi che mi esaltano, ma spesso si tratta di cose diversissime dallo stile Afterhours. Ho ascoltato molto jazz recentemente, perché c’è una libertà che nel rock manca. E forse, anche se non c’è jazz in questo disco, ne rimane sicuramente lo spirito.

Questo disco ha visto la dipartita di Xabier, che nei vecchi Afterhours rappresentava l’animo sperimentale del gruppo. Come avete reagito alla sua mancanza?
M: Xabier ha una personalità particolare e il volerla sviluppare ancora di più musicalmente lo ha portato a prendere certe decisioni. Aveva bisogno di uscire da un certo tipo di schema della forma-canzone. Xabier aveva quel ruolo e l’ha sviluppato spingendomi al ruolo di chitarrista ritmico che, per me, era una cosa abbastanza frustrante. D’altro canto però canto e scrivo almeno la metà dei pezzi, per cui potevo anche accontentarmi: ma era la libertà che mi mancava. Una libertà che ho riacquisito con la sua mancanza. Pochi conoscono i nostri primi dischi dove, a livello embrionale, esistevano già questi aspetti, ma indubbiamente ognuno si è specializzato in ciò che era più sinergico per il resto del gruppo. Viti, il bassista, suona molto bene le percussioni, ma non l’ha mai fatto; lo stesso con Ciffo, il violinista, che è un bravo chitarrista. Un gruppo è un grande compromesso. Ci sono band fantastiche dove i ruoli sono intercambiabili. Forse stiamo scoprendo solo adesso questa nuova dimensione.

Chi ti ha visto impegnato nei reading ha notato una tua propensione a non fare il protagonista, a star dietro ad altri artisti. Era la conseguenza dell’essere stato per tanti anni il frontman degli Afterhours?
M: Questo ha influito molto, ma per me era importante non far assumere al reading una dimensione celebrativa, anche se purtroppo non ci sono riuscito. Per noi era importante la parola; pensavamo di avere delle canzoni che si potessero adottare perfettamente, come nel caso di “Dentro Marylin”. Purtroppo i brani in quella veste acustica venivano letti “alla Baglioni”, una sorta di momento celebrativo in cui tutti si sentivano di dover cantare. Ci siamo resi conto che lo spettacolo era molto fragile da quel punto di vista e raramente siamo riusciti a comunicare lo spirito giusto. Quando è successo è stato veramente bello. Anche persone molto vicine a noi non hanno capito il senso dello spettacolo e questa è una cosa di cui abbiamo sofferto.

Hai definito “Bungee jumping” come “il tentativo di suicidio con un elastico attaccato al culo”. Cosa significa esattamente?
M: “Bungee jumping” è un brano sulla perdita dell’identità: un periodo che ho attraversato negli ultimi due anni. Abbiamo cercato di ritrovare un senso come gruppo e dal punto di vista artistico e interiore. E’ stato molto faticoso. In realtà quel brano è legato ad un episodio della mia vita: ho fatto davvero bungee jumping, con mio cugino.

Cosa si prova?
M: E’ un’esperienza, psicologicamente, molto simile al suicidio. L’elastico non lo senti quando stai per lanciarti nel vuoto, ma sai che c’é. Penso che se decidi di suicidarti l’impressione di schiantarti al suolo non ce l’hai presente. Sai che morirai, ma non conosci la sensazione che proverai quando toccherai il selciato.

Hai scritto una frase molto bella, “la chiave della felicità è la disobbedienza in sé”, contenuta in “Quello che non c’è”. Di quale disobbedienza parli?
M: E’ disobbedienza nei confronti di alcuni obiettivi che ci siamo dati. E’ “la disobbedienza in sé a quello che non c’è”: in realtà quello che non c’è è quello che pensavamo ci fosse e su cui abbiamo basato la nostra vita, la nostra morale, i nostri obiettivi e il nostro credo politico. Ad un certo punto scopri che quello che stavi cercando, quello che stavi coltivando, non è esattamente quello che cercavi o, addirittura, non esiste. Disobbedire a questo meccanismo è la chiave. Accettare la propria mediocrità e i propri limiti è forse un modo per stare un po’ meglio. Certo è anche una rinuncia a certe regole imposte. L’impossibilità di essere quello che pensiamo di dover essere, l’impossibilità di accettare il nostro essere mediocri. E’ questo che ci fa star male.

E’ una specie di crisi d’identità?
M: Sì, ma penso che sia anche un atto di coraggio. Non parti da un certezza per arrivare ad un’altra: parti da una certezza per arrivare dove non sai. E’ l’impossibilità di continuare a raccontarsi delle realtà che sai non essere vere. Ci siamo messi in gioco per dare un senso al nostro progetto. Abbiamo visto che non solo non contaminiamo il sistema, ma rischiamo di esserne contaminati. Il messaggio che trasmetti arriva poi a persone della tua stessa cerchia, e sono proprio loro a non capire un cazzo di quello che stai facendo. Questa è la cosa più deprimente e triste.

Credete quindi che i vostri lavori precedenti siano più autocompiaciuti?
M e G: No.
M: Abbiamo sempre cercato di sdrammatizzare. Siamo saliti sul palco in calzini, vestiti da bambini e con le maschere. Ma anche quel modo di fare era diventato una gabbia. Le cose che prima erano dissacranti sono diventate degli slogan usati dalla gente per divertirsi. Tutto quello che prima era provocatorio e disturbante poi è diventato festa. Penso che Xabier abbia sofferto molto di questo perché lui vedeva gli Afterhours come un gruppo disturbante. Era comunque una cosa che non avevamo la necessità di tirar fuori. Personalmente non sentivo di dover essere disturbante: credo sia molto adolescenziale volerlo essere a tutti i costi.
G: In questo momento nessuno di noi ha bisogno di questo. La fase che abbiamo passato, una fase in cui abbiamo voluto ricominciare da capo, ci ha chiarito molto le idee su ciò che volevamo fare.

Siete all’interno di un sistema che vi mangia e vi trasforma. C’è un modo per uscirne e se ne esiste uno, quanto è difficile riuscirci?
G: Penso che una risposta sia proprio in questo disco. Se c’è qualcosa che potevamo fare era questo album. E’ molto diretto e preciso e noi siamo così. Siamo arrivati nella top ten con un singolo che non è un singolo e non ha un video di supporto e non è in radio. Proprio per quello ci dà soddisfazione.
M: Comunque ogni cosa viene assorbita. E’ successo con ogni movimento, vedi il neo-punk, il piercing, i dreadlock e i tatuaggi: una volta erano elementi di rottura, ora li usano anche le bambine di otto anni. Per un artista è un dovere cambiare e rinnovarsi. Anche gli artisti che esagerano con la sperimentazione non mi piacciono. Devi avere qualcosa da dire, ma devi saper crescere come persona e come artista.
G: Dal punto di vista discografico siamo invece in una situazione molto anomala ed eccezionale. Non siamo mai stati con una major, ma la nostra piccola etichetta è comunque riuscita, nel tempo, a penetrare il mercato e far funzionare le cose in modo diverso. Noi non abbiamo nessun tipo di vincolo e non dobbiamo litigare con nessuno. Abbiamo un rapporto con delle persone che sanno che con gli Afterhours si può lavorare in una sola maniera: nel tempo.
M: Sì, infatti. Noi decidiamo ogni cosa: quando far uscire il disco, come farlo, come fare promozione, come impostare il tour. A me viene in mente di fare il Tora! Tora! e loro mi aiutano a realizzarlo. Io sono proprietario, in parte, delle mie edizioni musicali. Questo per me significa essere indipendenti dal circuito delle major. C’è molta confusione, e molti ragazzini con Adidas e Levi’s credono di fare gli alternativi, ma poi firmano per una major. Nessuno in questo momento è realmente indipendente, ma ci sono in ogni caso delle isole molto positive che funzionano molto bene. E “funzionare” non è un aggettivo negativo; a parte il fatto che è un verbo (risate), non ha assolutamente un’accezione negativa.

Quando è partito il Tora! Tora! dicevi che una manifestazione del genere era nata perché c’era una grande scena italiana da presentare. Credi ancora sia così?
M: Penso che il Tora! Tora! sia stato frainteso. Il fatto di far conoscere una “scena” oltre ad essere un atto dovuto è il segno che questa scena c’è ed è enorme ed eterogenea. Non capisco chi dice che non esiste. Cosa significa? Che non c’è un gruppo di persone che si riconosce in uno stesso movimento estetico come vorrebbe qualche cazzone così avremmo il nostro “italian pop”? In realtà abbiamo la fortuna di avere una scena di grandissimo valore.

Forse i nuovi gruppi sono solo troppo presuntuosi per lavorare umilmente all’inizio della loro carriera. Oggi i musicisti vogliono tutto e subito…
M: C’è sicuramente confusione. Noi siamo nati come un gruppo post-punk. Stampavamo, registravamo e distribuivamo i nostri dischi e ci organizzavamo i concerti da soli. E’ stata una cosa molto eccitante e una grandissima lezione di vita. Questo processo è però crollato quando ha raggiunto il culmine con i Nirvana, che per un paio di anni hanno dato l’illusione di poter mantenere una certa integrità ed essere alternativi in un sistema gestito dalle major. In realtà i Nirvana sono diventati famosi e sono stati fagocitati loro stessi. Tutti vogliono raggiungere questo tipo di grandezza. Con i Nirvana si è raggiunto il fallimento più grande perché il tipo di ideale che doveva discostarsi da certi obiettivi è andato a combaciare con questi. E’ una situazione grottesca, ma credo che ora si stiano formando le basi per l’autoproduzione e per una ricerca di circuiti alternativi assolutamente indispensabili per il fermento musicale. Questo però non dobbiamo attuarlo noi a trentacinque anni passati: deve farlo chi ha un’energia assoluta. Semmai un nostro fallimento è stato il non riuscire a tramandare un messaggio. Oggi sto cercando di non ripetere quest’errore, anche perché c’è un’ignoranza endemica all’interno dell’underground italiano. Non sto parlando di mentalità, ma di limiti. Ci sono giornalisti che sono più vecchi di noi di quindici anni che annaspano per cercare le nuove mode da poter trasmettere ai ragazzi e magari creare un nuovo caso sul proprio giornale. Poi ci sono degli addetti ai lavori completamente incapaci, per cui ai ragazzi arriva un messaggio totalmente falso e distorto.

Il tour congiunto con i Mercury Rev come è nato?
M: Siamo complementari. Loro sono molto onirici, usano un sacco di tastiere. Mi piacciono da tantissimo tempo e penso che gli ultimi due dischi siano le cose più belle che abbiano mai fatto. Queste collaborazioni nascono un po’ per caso. Dopo il loro concerto siamo stati insieme tutta la notte e, dopo questo contatto, è nata l’idea di un tour congiunto. Penso che sia anche un bel caso di collaborazione tra etichette perché la V2 collabora con la Mescal ed è un fatto più unico che raro in Italia. Abbiamo iniziato a fare le cose che ci divertono e basta. D’altronde, chi conosce i Mercury Rev in Italia?

Stai cercando tra i giovani artisti per trovare qualcuno da portare alla prossima edizione del Tora! Tora!. C’è qualcuno che ti ha colpito particolarmente?
M: La gente che mi ha colpito veramente ha più di trent’anni. Tra di loro c’é Amerigo Verardi (ex Lula), Marco Parente e Cesare Basile: il suo ultimo disco è molto bello. Poi ci sono altri artisti più giovani come i Perturbazione che mi piacciono abbastanza, anche se dal punto di vista musicale sono molto distante da queste cose; e poi c’è Bugo…

…Che ormai è l’idolo di tutti…
M: L’ho visto in televisione e devo dire che è convincente. E’ molto divertente e può crescere se solo si staccasse dai suoi riferimenti troppo diretti. E’ ancora molto vicino al Beck country, ma è comunque un buon esempio. Lo fa bene e penso che abbia il talento per diventare davvero se stesso. Tra un paio di album capiremo se ha i coglioni o meno. Non ho contattato ancora nessuno ma mi piacerebbe portare questi nomi come nuove proposte. Inoltre c’è da segnalare l’ondata ska-core che, anche se non mi piace particolarmente, rappresenta la nuova realtà italiana. Uno degli scopi del Tora! Tora! è quello di dar rilievo a ciò che di nuovo succede nel nostro Paese e spero quindi che questi gruppi ci siano.

(Giuseppe Fabris – Valeria Rusconi)

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