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La faccia buona della globalizzazione: Jamie Catto e Duncan Bridgeman raccontano il loro progetto...

Diciamolo: 1 Giant Leap non è il primo tentativo di globalizzare la musica, unendo l’occidente al resto del mondo dei suoni. Non sarà neanche l’ultimo, e forse non diventerà neanche un progetto “storico” come quel “My life in the bush of ghosts” che, grazie alle menti geniali di David Byrne e Brian Eno, vent’anni fa inaugurò una strada battutissima.
Però 1 Giant Leap piace e convince. Non tanto per i nomi coinvolti (da Michael Stipe allo scrittore Kurt Vonnegut, da Robbie Williams a Baba Maal), ma perché è un bel disco di belle canzoni. Questo è ciò che spesso si perde in progetti di tal fatta: la piacevolezza va a farsi benedire a spese di un’eccessiva intellettualizzazione, dettata altrettanto spesso dalla voglia degli artisti di pontificare, di comunicare messaggi “alti”.
Jamie Catto e Duncan Bridgeman non sono caduti nel tranello: parlano di temi universali, ma senza strafare, e senza mai perdere di vista la musica. Dopo il disco, già recensito da Rockol qualche tempo fa, uscirà presto anche un DVD. Abbiamo colto l’occasione per farci raccontare direttamente da Jamie e Dunca passato presente soprattutto futuro di 1 Giant Leap.

Potete vedere uno speciale in video sul canale Streaming, che comprende la videointervista, il video di "My culture" (con Robbie Williams e Maxi Jazz) e l'anteprima esclusiva del DVD "Money": trovate tutto all'indirizzo
http://streaming.rockol.it.

Partiamo dall’inizio: che cos’è 1 Giant Leap?
Jamie Catto: 1 Giant Leap è stata innanzitutto una lussuria, quella di andare in giro per il mondo a trovare i nostri eroi, portandoci dietro la nostra musica per fare una vera collaborazione con chi incontravamo. Mettevamo loro una cuffia, e tramite un computer portatile gli chiedevamo di intervenire sulle nostre basi, su un’idea ritmica o melodica elaborata magari in Uganda una settimana prima. E’ stato un tentativo di dare vita ad una collaborazione globale, con artisti famosi e non.

I nomi coinvolti nel progetto sono tantissimi. Come avete contattato tutta questa gente?
Duncan Bridgeman: Quando siamo partiti per il nostro fantastico viaggio, non avevamo idea di chi avremmo coinvolto in quello che stavamo progettando. Siamo partiti dal Senegal, da Baaba Mal. Incontrandolo, abbiamo conosciuto i suoi musicisti, e tramite loro altra gente ancora. Abbiamo lavorato in modo reticolare, saltando in modo imprevisto da una persona all’altra. Un altro esempio è stato Michael Franti, che abbiamo raggiunto nella sua casa di San Francisco. Quando gli abbiamo detto che saremmo stati in Nuova Zelanda, ha iniziato a snocciolarci una serie di suoi amici musicisti di laggiù, che poi abbiamo incontrato. Grazie a questi contatti abbiamo avuto la possibilità di avvicinarci alla cultura Maori. Tutto il viaggio è stato pieno di sorprese di questo tipo.

Qualcuno vi ha detto di no? Chi e con quali motivazioni?
JC: Gente come Sting o Woody Allen, per esempio. Anche se nessuno ha detto proprio “no”. Hanno risposto tutti che non avevano tempo, che poi è la traduzione dell’idea stessa del rifiuto nel linguaggio del music business… Ma noi abbiamo avuto fiducia che Dio e la sua saggezza che ci mandassero la gente giusta; per questo siamo riconoscenti…

Siete tornati dal vostro viaggio con un’enorme quantità di materiale. Come avete scelto quello che poi è finito sul disco e sul DVD, e come avete affrontato il montaggio audio e video?
DB: Abbiamo viaggiato con la nostra musica immagazzinata in un computer portatile; così tutte le sessioni musicali che abbiamo fatto sono state una specie di lavoro di sovraincisione in tempo reale su delle basi che si evolvevano strada facendo. In questo modo potevamo sentire subito tutto quello che stava succedendo. Quando stavamo lavorando con Michael Stipe, per esempio, noi potevamo capire immediatamente come suonava il pezzo con la sua voce… Per la parte audiovisiva, non è stato in realtà molto più difficile perché abbiamo filmato in MiniDV, un formato molto economico: riprendevamo praticamente qualsiasi cosa. L’unico problema era che non potevamo metterci mano fino al ritorno. Comunque abbiamo dovuto scegliere tra oltre 300 ore di riprese, che abbiamo montato in 12 capitoli tematici su morte, sesso, soldi e così via. Il materiale veniva automaticamente archiviato a seconda del tema, e rilavorato in quel contesto. In qualche modo il materiale si è lavorato da solo.

Come avete scelto i temi dei 12 capitoli del vostro progetto?
JC: abbiamo semplicemente cercato temi universali, che riguardano gli uomini. Abbiamo cercato di dare vita ad una conversazione che potesse coinvolgere il mondo intero, che ognuno potesse comprendere. I temi sono molto ampi: se uno prende come spunto “il confronto”, si può parlare di amore, di guerra, di confronto con se stesso per una grande decisione… In questo modo abbiamo potuto parlare di molte cose diverse, ma ce ne sono altrettante che non abbiamo affrontato… Le useremo per il prossimo capitolo.

Quindi 1 Giant Leap è un progetto aperto che avrà altre “puntate?
DC: La posizione in cui siamo è molto difficile: abbiamo finito quattro mesi fa, e finché stai lavorando è impossibile avere una immagine complessiva di ciò che stai producendo. Ora abbiamo avuto una enorme risposta, soprattutto emotiva, da parte di un sacco di gente. Così abbiamo deciso di continuare a lavorare: con gente diversa, su canzoni nuove. Ci sono così tante idee in ballo al momento… Ora che tutti sanno cos’è il progetto, è più facile coinvolgere le persone, e si stanno aprendo un sacco di porte… Uno degli artisti che coinvolgeremo è sicuramente Jovanotti, che ci ha appena chiamato. Ma le cose sono fluide, bisognerà vedere come si evolve il progetto e lasciare spazio alle cose che succedono.

1 Giant Leap è stato preceduto da progetti basati su idee simili, come “My life in the bush of ghost” di David Byrne e Brian Eno. Sono stati per voi una fonte d’ispirazione?
DC: Sono stati un’ispirazione totale. Ma abbiamo cercato di spingere un po’ più in là questa idea comune di un sound globale, in parte sfruttando anche il linguaggio della MTV generation, più veloce e basato su frammenti brevi. Eravamo interessati a fare delle riflessioni profonde, ma non incomprensibili. Un progetto come “Koyaanisqatsi” di Philip Glass è difficile da capire se uno non ha certi riferimenti, si può pensare che sia solo un film noioso in cui nessuno parla mai… Abbiamo cercato di rendere più efficaci e coincise possibile le affermazioni delle persone che abbiamo intervistato, mixandole con la musica e con le immagini per rafforzarle ulteriormente.

In questo progetto, voi siete una sorta di “deus ex machina”: muovete le leve, ma non vi si vede o non vi sente mai direttamente…
JC: Per un artista è molto facile e rischioso avere un messaggio: si finisce con il predicare, cercando di insegnare agli altri il modo giusto di vedere il mondo. Noi, più che risposte, avevamo delle domande. Per questo abbiamo intervistato tanto gente famosa come Dennis Hopper quanto pornostar o barboni che vivono per la strada. In questo modo abbiamo bilanciato diverse opinioni. Lo ripeto, questo progetto non era focalizzato sul “nostro” messaggio. 1 Giant Leap è il mondo che parla, non Jamie e Duncan che predicano.

Avete avuto entrambi precedenti esperienze di rilievo nella musica. Quanto hanno contribuito al modo in cui avete affrontato questo progetto?
DC: Faccio musica da molto tempo, ma ad un certo punto mi sono rimesso totalmente in discussione: mi sono fatto crescere i capelli, ho cambiato il mio approccio al mondo, musicale e non. Ho prodotto gente come i Take That e non lo rinnego, ma oggi utilizzo le abilità apprese in quei lavori fatti dieci anni fa. Abbiamo avuto a che fare con gente che non aveva mai neanche visto un computer, e il mio compito è stato di facilitare e agevolare il loro modo di esprimerli.
JC: Io ho lavorato con i Faithless; quando ho iniziato questo progetto quando ero ancora nel gruppo con loro. Dividevo un appartamento con Maxi Jazz, e con lui ho condiviso anche molte idee, cercando la sua prospettiva di buddista. E’ probabilmente il miglior rapper del mondo e sono orgoglioso che abbia cantato nel disco, ha scritto un bellissimo testo. Alla fine, quando fai musica vuoi farla soprattutto con i tuoi amici, e questo è stato proprio il caso.

Oggi si parla molto di Global e no-global. 1 Giant Leap è un progetto di globalizzazione della cultura. Che prospettiva avete sugli eventi, anche tragici, degli ultimi mesi?
DC:: Prima di partire, ci siamo posto ogni problema possibile sul conflitto tra nord e sud del mondo, sulla civiltà occidentale che sfrutta le altre culture, e cose di questo genere. Quando viaggi, però, hai a che fare degli individui. E tutto ciò che permette di globalizzare i rapporti individuali, come un’e-mail, è una cosa buona. Allo stesso modo tutti i tentativi di sfruttamento di un indviduo per avidità sono terribili.
JC: “Globalizzazione” è solo una parola fatta di molte cose e molti significati; non la si può scartare a priori. Bisogna distinguere, rifiutare lo sfruttamento e apprezzare ogni tentativo di far sentire la gente del mondo come una famiglia senza confini. Esattamente come con la propria cultura, si deve decidere cosa si vuole tenere e a cosa si vuole rinunciare...

. (Gianni Sibilla)

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