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Passato, presente e futuro di una band che ha venduto 25 milioni di copie e ora incide per una indie: parla Jim Kerr...

Non era facile prevedere una resurrezione dei Simple Minds dopo il 2000. In fondo, sembrava che avessero esaurito la loro spinta da tempo: dopo i trionfi pop degli anni ‘80 e la successiva fase impegnata poteva essere tempo di consegnare alla storia del rock Jim Kerr e Charlie Burchill, rimasti gli unici titolari della pluripremiata ditta. I due però non hanno la minima intenzione di fare i pensionati di lusso e ci riprovano, incuranti del disinteresse delle major. Il nuovo “Cry” infatti esce per l’indipendente Eagle dopo un disco di cover. E, anche se non porta alcuna rivelazione travolgente, mostra che i Simple Minds non vogliono limitarsi a raccogliere qualche spicciolo sfruttando la popolarità del revival degli anni ‘80, inspiegabilmente diventati un periodo mitico. Kerr e Burchill insomma sono tornati per restare in circolazione, e non con la triste etichetta di vecchie glorie anche se il momento delle grandi vendite è passato da un pezzo. Riusciranno a convincere il mondo di essere dei classici del rock?

I Simple Minds stanno vivendo una specie di esplosione produttiva: nel giro di qualche mese avete pubblicato un disco di cover, una raccolta e ora un album di materiale nuovo. Cosa è cambiato, dopo anni di silenzio?
Penso che sia proprio una reazione al silenzio. Tre anni fa mi è successa una cosa piuttosto strana, non ero più molto interessato alla musica, in nessun senso. Non ascoltavo niente e, soprattutto, non mi piaceva la direzione in cui ci stavamo muovendo. Avevo emozioni confuse a riguardo: una voce mi diceva “Mio Dio, è pazzesco”, ma fortunatamente un’altra più forte mi suggeriva che non c’era niente di strano, che dopo avere suonato per vent’anni si può anche arrivare a un punto in cui si sente il bisogno di fare un passo indietro e lasciare che lo cose seguano il loro corso, senza cercare di spingerle per forza da qualche parte. Non ero annoiato, ma a un certo punto ho dovuto ammettere che non c’era vitalità in quello che stavamo facendo e io non riesco a fare musica - o meglio, buona musica - se non c’è quella particolare scintilla. Allora ho deciso di prendermi una pausa. Non ci siamo sciolti, ma io e Charlie Burchill non ci siamo visti per circa un anno e mezzo. Abbiamo parlato al telefono, non c’erano contrasti fra noi: siamo amici da quando eravamo ragazzini. Io non avevo contatti con l’industria musicale, comunque il risultato della pausa è un desiderio genuino di riprendere che ha portato a questo periodo di grande attività.

La storia dei Simple Minds è costellata di cambi di formazione. Pensi che il fatto di non essere stati molto stabili vi abbia in qualche modo danneggiati?
Dal punto di vista del marketing, sì. I gruppi, soprattutto in America, devono essere una unità inseparabile, sai una cosa epica del tipo quattro facce scolpite nella pietra, i cavalieri dell’apocalisse. Penso che nel nostro caso alcune situazioni che ci abbiano costretto a certe decisioni. Quando Michael McNeill, il nostro tastierista originale, ha deciso di lasciare il gruppo dopo dodici anni o qualcosa del genere... be’, all’epoca ho pensato che fosse un atteggiamento un po’ egoista: ormai aveva fatto un sacco di soldi, ci ha detto che non gli piaceva quello stile di vita e ci ha salutato. Probabilmente aveva altri motivi, noi scozzesi non vuotiamo mai il sacco fino in fondo. Comunque, lui aveva avuto un ruolo fondamentale nel definire il nostro stile, non era possibile sostituirlo. Però, non volevano neanche restare un duo, i Simple Minds sono sempre stati un gruppo, una band che suona dal vivo. La cosa migliore ci sembrava mantenere la maggiore flessibilità possibile e lavorare con chiunque volessimo. C’è sempre l’idea che i membri di un gruppo debbano avere le stesse idee e la stessa visione del mondo. Quando hai 18 anni può funzionare così, ma quando ne hai 30 è difficile che tutti siano d’accordo su tutto. E inoltre, penso che si possa imparare molto di più collaborando con musicisti esterni. Nel caso di questo album, abbiamo tenuto la porta spalancata.

Avete lavorato con questa idea fin dall’inizio?
Il disco è cominciato da zero. Mentre vivevo il periodo di cui ti raccontavo prima, stavo anche cercando di farmi una nuova vita a Taormina, in Sicilia. Ho fatto amicizia con un po’ di gente, anche con musicisti che mi facevano ascoltare le loro cose e mi invitavano in studio mentre registravano. Io ci andavo, non come Jim Kerr dei Simple Minds, ma come normale musicista. Non mi sono mai posto nei loro confronti come uno che ha venduto 25 milioni di copie, ho sempre agito per puro divertimento. Al tempo stesso, mi rendevo conto che uscivano delle buone canzoni, ho ricominciato a pensare di essere bravo a fare musica. Mi sono ritrovato a scrivere canzoni con questi amici e mi piacevano, mi sembravano perfette per i Simple Minds, ma mi chiedevo come lo avrei detto a Charlie. Mi sarei dovuto presentare da lui e dirgli “Ho scritto un po’ di canzoni con degli amici, ecco il nuovo album”? Fortunatamente, a Charlie i pezzi sono piaciuti e abbiamo deciso di usarli come punto di partenza per fare un nuovo disco. Abbiamo mantenuto una mentalità aperta, senza pensare che siamo una grande band, quindi dobbiamo considerare cosa se ne pensa sul mercato americano e portarci dietro tutta la nostra storia.

Comunque, non potete evitare di fare i conti con la vostra storia. Temi che il nuovo album possa essere accolto solo come un revival degli anni ‘80?
Semplicemente, non è vero. Se qualcuno lo dice, non posso farci niente, ma è male informato. Non c’è niente di nostalgico nel nuovo album, c’è semmai un equilibrio fra il passato e la nostra creatività presente. Se fosse solo nostalgia, non avremmo fatto un nuovo album, che senso avrebbe avuto?

C’è anche il fatto che uscite con la Eagle, che ha in catalogo molti altri personaggi con un passato glorioso.
Preferisco così, piuttosto che lavorare con un’etichetta che pubblica, che so, Kylie Minogue o Britney Spears. Che cosa hanno a che fare con me? Non voglio parlare male di nessuno e non voglio dire che non lavoreremo mai più con una major, ma con una grande casa discografica non avremmo mai potuto fare l’album in questo modo, ci avrebbero contestato un sacco di cose, come il fatto di avere uno strumentale alla fine dell’album. In questo modo abbiamo tenuto sotto controllo tutto. E’ chiaro che se vuoi fare un “blockbuster album”, che venda molto, devi lavorare con una major. Se vuoi fare un album che ti dia la possibilità di cercare una direzione più interessante, devi lavorare con gente che pensa soprattutto alla musica.

In passato avete puntato volutamente a fare dischi che vendessero molto?
Sì. Lavoravamo molto, volevamo fare un buon disco che riuscisse a combinare qualcosa anche sul mercato americano e l’abbiamo fatto. La nostra versione di questo è stata “Alive & kicking”. Abbiamo sempre seguito le direzioni che ci incuriosivano, anche solo per scoprire dopo che non ne valeva la pena. Non lasciavamo che qualcuno ci dicesse cosa dovevamo fare, soprattutto se l’obiezione che ci muovevano era che quello che volevamo fare non era in sintonia con le mode. Abbiamo sempre agito per noi stessi, ci interessava fare tutte le esperienze possibili. Non abbiamo mai avuto preconcetti del tipo “i concerti nei club sono meglio di quelli negli stadi”. Quando sei davvero coinvolto, cerchi di dare il massimo in qualsiasi situazione, che sia suonare a un matrimonio o allo stadio di Wembley. Il resto è secondario.

In “Cry” avete collaborato coi Planet Funk e tu adesso trascorri parecchio tempo in Italia. Sono curioso di sapere la tua opinione sulla musica italiana, che non gode di un grandissimo prestigio internazionale, nonostante qualche nome di grande successo.
Sono sempre stato aperto alla musica degli altri paesi: quando ho iniziato ad esempio ascoltavo molti gruppi tedeschi. Di solito, le melodie degli artisti italiani sono molto forti. Capisco che ci sia una parte della tradizione italiana che per qualcuno possa essere deludente, il tipo di canzone di Sanremo ad esempio. Ma alla fine le melodie sono quello che conta e da voi ce ne sono moltissime. Anche il livello dei musicisti mi sembra ottimo. Ad esempio, il nostro pezzo coi Planet Funk è forse il più bello dell’album. Non credo proprio che la musica italiana sia inferiore a quella inglese o americana, ci sono cose davvero buone, penso a Battiato ad esempio. Capisco che per qualcuno sia facile criticare artisti come Zucchero o Eros Ramazzotti, ma non c’è dubbio che Ramazzotti sia il migliore in quello che fa. Non c’è un americano capace di fare meglio quello che fa lui. Il fatto che non ci sia stato un movimento o una scena italiana che viene riconosciuta a livello internazionale forse vuole solo dire che arriverà in futuro.

“Floating”, l’ultimo pezzo dell’album è accreditato a Vince Clarke degli Erasure. Come siete entrati in contatto?
Non ci siamo mai incontrati. Ho un grande rispetto per il suo lavoro di produttore pop, anche se capisco che per qualcuno possa essere difficile associare i Simple Minds di “Belfast child” con gli Erasure.

Ma è facile associarlo con i Simple Minds di “Sons and fascination”
Esatto. Vince è un genio dell’elettronica ed è stato influenzato da gente come Brian Eno e David Bowie, che hanno contato molto anche per noi. Gli abbiamo commissionato un remix di “Homosapien” di Pete Shelley, che abbiamo inciso sul nostro album di cover. Alla fine, non abbiamo pubblicato il suo remix, ma una parte di questo, messa in loop è diventata il pezzo strumentale che senti alla fine dell’album. Spero però di coinvolgere Vince nel prossimo album perché ha un grande tocco pop. So che molti fan dei Simple Minds più rock odieranno questo pezzo, ma penso che sia parte della nostra tradizione di brani strumentali.

Probabilmente avete già disorientato i vostri fan anni fa. Chi vi ha conosciuto con “Sparkle in the rain” o “Once upon a time” e andava a recuperare i vostri album precedenti a volte restava sorpreso.
Già, in un certo senso stavamo ancora cercando una direzione, c’è voluto “New gold dream” per mettere a fuoco le cose. Un sacco di gente ci mette in relazione con gli U2, ma noi avevamo molto più in comune con i New Order o i Joy Division, almeno per un periodo. In effetti, quando sento parlare dei Simple Minds, mi chiedo sempre a quali si riferiscano: quelli elettronici, quelli da stadio, quelli politici di “Mandela day”?

In effetti, avete attraversato molte fasi diverse. Siete partiti dal punk all’epoca di Johnny & The Self Abusers e siete arrivati fino a oggi. Cosa è cambiato nella scena musicale?
In un certo senso, tutto. Da un lato, il marketing ha preso il sopravvento. Per quelli della mia generazione, il punto era che dovevi inventare te stesso, nessuno ti poteva dire cosa fare. Come ti dicevo, abbiamo inciso un po’ di dischi prima di trovare la nostra strada, abbiamo avuto la possibilità di fare diversi tentativi. Adesso, se non funzioni dopo un album, ti mettono alla porta. Prima mi chiedevi della nostalgia, ma allora che dire degli Strokes o degli Hives? Voglio dire, mi piacciono, ma ho l’impressione che mi piacciano non perché sono grandi, ma perché mi ricordano grandi cose del passato. Probabilmente l’accelerazione del ciclo degli stili è aumentata molto. All’epoca di “Street fighting years” non avrei pensato di fare un pezzo con Vince Clarke, non vedevo come certe cose potessero tornare attuali. Invece, è arrivata un’ondata di artisti francesi che ha riportato alla ribalta quei suoni. Ci sono fasi che cambiano a grande velocità. Sei nuovo e un momento dopo sei vecchio. E quando sei vecchio, diventi disperato, non hai attrattive. Ma dopo un po’, diventi un classico, come accade per le auto. Negli anni passati, ci hanno offerto molti soldi per fare qualche tour di revival degli anni ‘80 in America, solo perché “Alive & kicking” e “Don’t you” sono stati grandi successi in quel periodo. Ma sono cose tristi. Non biasimo chi ha partecipato, perché c’è anche chi ha bisogno di soldi per vivere, ma noi non abbiamo questa necessità. Vogliamo diventare dei classici e mantenere una dignità.

(Paolo Giovanazzi)

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