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L'occhialuto cantante racconta il nuovo disco, 'When I was cruel'...

Elvis Costello ha inforcato nuovamente i suo leggendari occhiali neri, assieme alla chitarra che imbracciava sulla copertina del primo disco, “My aim is true”. Non che avesse mai smesso di guardare il mondo attraverso quelle lenti diventate una sorta di icona, o che avesse smesso di suonare come si deve. Ma il nuovo disco “When I was cruel” segna un ritorno al pop-rock di inizio carriera: diretto, melodico ed un po’ spigoloso. Le ultime prove del Nostro erano dischi di ballate, come il magistrale “Painted from memory” scritto e inciso a quattro mani con Burt Bacharach nel 1998, mentre l’ultima prova “solista” fu il piacevole ma non eccelso “All this useless beauty” (1996). Insomma, si sentiva la mancanza del Costello meno romantico, quello più sarcastico. “When I was cruel” è il suo disco più chitarristico. Costello in questa intervista ci racconta come ha (quasi) smesso di cantare ballate, pur continuando a coltivare i suoi molteplici interessi.

”When I was cruel” è quanto di più secco e diretto hai pubblicato da dieci anni a questa parte. Eri stanco di cantare ballate?
Ho sentito l’esigenza di fare qualcosa di diverso. Non sono stanco delle ballate, anche se ne ho cantate davvero tante negli ultimi tempi, e non ho intenzione di smettere del tutto di farlo. Ne ho appena inciso un’altra, una versione di “Smile” di Charlie Chaplin, commissionata dalla televisione giapponese, per la quale ho riscritto tutto l’arrangiamento. Nel prossimo tour, che sarà decisamente più rock, continuerò a cantarle, insieme ai pezzi portanti che saranno quelli di questo disco o quelli di album come “Blood & chocolate” e “This year’s model”.

Questo disco ricorda molto “This year’s model”, se non nei suoni almeno nello spirito e nell’energia…
Beh, non è male: ho inciso quel disco quando avevo poco più di 20 anni… Ma in “When I was cruel” c’è molta più chitarra, che al tempo non suonavo granché.

Nell'album hai campionato la “nostra” Mina: nella title-track si sente un frammento vocale in loop…
Arriva da “Un bacio è troppo poco” (brano risalente al 1965 scritto da Canfora-Amurri e originariamente inserito nel lato b del singolo "Soli", ndr).In realtà l’ha scoperta mia moglie tramite una sorta di rivista per imparare l’italiano alla quale siamo abbonati e che riceviamo ogni mese. A questa rivista era allegata una cassetta con uno show radiofonico, di quelli didattici, parlati lentamente. In quello show solitamente c’è un po’ di tutto: notizie, interviste, e anche della musica. In una di queste cassette c’era una canzone di Mina, non quella che ho campionato ma comunque un lento molto drammatico, di cui non mi ricordo il titolo. Da quella canzone io e mia moglie abbiamo iniziato ad ascoltare la sua musica, e da lì è nata l’idea di campionare un suo brano per il disco. Comunque, attraverso quella rivista ho scoperto anche gli Almagretta, che sono il mio gruppo italiano preferito, almeno di quelli che conosco. Ah, già dimenticavo: mi piace pure Carmen Consoli…

Questa citazione sembra rinsaldare un tuo rapporto costante con l’Italia. Ai tempi di “Brutal Youth” (1994) inseristi delle note di copertina scritte in un pessimo italiano…
Si, ai tempi ero stato un po’ a Firenze, cercando di imparare la vostra lingua con i risultati che si sono visti. Recentemente sono stato diverso tempo a Bologna per preparare scrivere la musica di un’opera intitolata “At the balletto”, che verrà messa in scena a Reggio Emilia tra qualche settimana.

Tornando al nuovo disco, non solo hai fatto ritorno ad un suono più duro, ma anche i tuoi testi hanno messo da parte il romanticismo per una nuova ventata di ironia e sarcasmo, di quello che ti ha sempre contraddistinto…
In realtà le idee liriche di questo disco sono sempre state nella mia testa, ma non ho avuto l’occasione giusta per metterle in musica. Per le canzoni che ho scritto con Bacharach ho dovuto lavorare molto sui testi più di quanto non avessi mai fatto, fino a trovare uno stile consono. Ci eravamo ripromessi di scrivere un disco per cuori spezzati, che parlasse malinconicamente di amore; non è stato per niente facile trovare il giusto linguaggio che accompagnasse la musica di Burt, che ha melodie in certi momenti molto astratte, inusuali. Ci volevano parole semplici e dirette, un po’ come quelle usate dal suo paroliere storico, Hal David, i cui testi sono inconsciamente poetici. Se avessi scritto testi più ironici per quel disco, avrei distolto l’attenzione dalla musica.
Ovviamente essere totalmente responsabile di un disco come “When I was cruel”, sia musicalmente che liricamente, significa grande libertà. Mi sono sfogato concentrandomi su aspetti meno romantici della vita.

Come nel titolo del disco, “Quando ero crudele”, e nella relativa canzone …
Beh, il titolo è volutamente ironico… Il contesto descritto della canzone, invece, è quello di uno sguardo su quanto è fragile e patetica la gente che cerca il potere. Una volta, quando ero giovane, tendevo ad essere intimorito da questi manager o politici… Ora invece li vedo pieni di soldi, ma magari con un toupet in testa, e mi fanno solo pena.

Hai descritto “45”, il pezzo che apre il disco, come una sorta di “autobiografia attraverso i numeri”…
Si, c’è un sottotesto abbastanza evidente che gioca sul fatto che la musica ed i suoi numeri, 45, 33 e 1/3 e così via, sono diventati la misura della mia vita. “45”, più in generale, parla di come certe canzoni segnino momenti importanti o di transizione. Ma non c’è nulla di nostalgico, in quei versi.

Una tua famosa affermazione recita che “scrivere di musica è come danzare di architettura”. Davvero credi così poco nei discorsi sulla musica?
Non ho mai detto quella frase, anche se continuano ad attribuirmela! L’ho letta da qualche parte, poi devo averla citata in un’intervista... Però vorrei averla coniata, perché è divertente. In realtà mi piace molto parlare di musica, ma credo che sia molto più difficile scriverne onestamente e correttamente.
Quella frase era riferita al fatto che i critici tendono a definire e ad assolutizzare ogni giudizio sulla musica. In realtà, ciò che manca alla critica musicale è la frase “in my opinion”, “secondo me”. E’ anche una forma di cortesia, che esplicita che ogni cosa che viene scritta non è basata su qualche dogma incontrovertibile. La critica musicale non è catechismo…
L’industria discografica e i media sembrano fondarsi sull’assunzione che il pubblico sia un monolite, un’insieme di persone che pensano tutti le stesse cose allo stesso modo. E’ una enorme cavolata! Il pubblico è fatto da individui, ognuno con la propria testa, la propria capacità di ascoltare o non ascoltare, di elaborare dei messaggi, di concentrarsi. Alcuni sono felici, altri sono frustrati, e così via. Nessuno di noi ha idea della diversità di gente che si trova di fronte ad un concerto. L’industria, media compresi, pensa che mandando un disco alla radio o scrivendo una recensione, venga recepito allo stesso modo e quindi sortisca lo stesse effetto su tutti quello che l’hanno ascoltato o ne hanno letto.

A proposito: ti sei fatto un’idea di chi ascolta la tua musica?
Ce l’ho per le persone che me ne parlano direttamente. E non finisco mai di stupirmi di quanto siano diverse tra loro. A Bologna, recentemente, ero in una chiesa ad ammirare un affresco, e sono stato riconosciuto da un prete che si è presentato come un grande fan della mia musica. Oppure sono stato riconosciuto da un poliziotto passando la dogana negli Stati Uniti, dove tradizionalmente ti guardano male quando vedono che sei un musicista… Sempre in America, camminavo per le strade di New York, e un van, da cui usciva della musica hip-hop, si è fermato: due ragazzi neri si sono messi a urlare (imita l’accento americano) “Hey, guarda chi è, è Elvis! Vuoi un passaggio?”.

Magari ti ascolta gente così diversa perché la tua musica è altrettanto eclettica…
Forse si, o forse solo perché faccio musica da così tanto tempo. Poco tempo fa mi sono visto citato nel video di un giovane gruppo, i Sum 41: in una delle scene c’era un mio poster attaccato al muro. Probabilmente non erano ancora nati quando ho iniziato a fare musica e altrettanto probabilmente non sanno se sono ancora vivo o meno…

Recentemente hai dato il via ad una serie di ristampe dei tuoi vecchi dischi, con l’aggiunta di demo, inediti, eccetera. Avevi già fatto un’operazione del genere nei primi anni ’90, però...
Si, ma la distribuzione non era stata granché, soprattutto in America. Il fatto, comunque, è che ho cambiato molto il mio punto di vista su quei dischi, e ho riscoperto molto materiale che valeva la pena di essere pubblicato. In queste ristampe, i “saggi” che ho scritto sono decisamente più a fuoco e soprattutto ci sono molte chicche in più da far ascoltare.


Hai un contratto particolare con la tua casa discografica attuale, la Universal, che prevede che tu possa pubblicare altri dischi di musica classica e jazz. Hai qualche altro progetto in cantiere?

Pubblicherò presto per la Deutsche Grammophone la musica di “At the balletto”. Poi ho già scritto alcuni brani country-rock sullo stile di “King of America”, ma non vorrei ripetermi troppo. Sono brani organici, che raccontano una storia, e mi piacerebbe farci qualcosa, magari coinvolgendo Emmylou Harris, con la quale ho già parlato. Ma il bello di avere così tanti piani è che possono cambiare strada facendo, per cui chi può dire cosa farò l’anno prossimo? Sicuramente, dopo la pubblicazione del disco andrò in tour con la mia nuova band, poi vedremo.

(Gianni Sibilla)

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