
Allora Rupert, nemmeno questa volta sei nella tentacolare Londra...Sei ancora dell’idea che starsene lontani da Londra sia salutare per la tua integrità e originalità artistica?
Sono appena tornato dalla Francia. Mi sono preso qualche giorno di vacanza con mia moglie. In questi tre anni trascorsi tra “Modus” e “Solaris”, mi sono sposato. Abbiamo deciso di andarcene in Provenza. Di ritorno dalla Francia ci siamo fermati in Olanda, ad Amsterdam, dove viveva mia moglie e dove spesso abito anch’io, da quando l’ho conosciuta. Così spesso sono lontano da Londra. Sì, direi che è ancora vero ciò che pensavo di Londra. In più ora c’è anche mia moglie. Lei, regista, mi ha fatto scoprire un nuovo mondo. Il mondo delle immagini. Mi sono sempre interessato ai film, ai video.
Quanto ti influenza, nella realizzazione di nuovi brani, il fatto di vivere con una persona che lavora con le immagini?
Non so in che modo mi influenzi questa vicinanza, ma so che ha già dato qualche frutto, visibile anche nel nuovo disco. I due ultimi brani dell’album (“Lost blue heaven” e “Under the palms”, ndr) infatti sono pezzi che avevo scritto per lei, per un suo cortometraggio (“Unter der palmen”). Sono due brani in cui, mai come in passato, ho cercato di creare delle atmosfere. Ci sono arrangiamenti per archi che, per circa un minuto, fanno da protagonisti assoluti. Sono elementi nuovi per la mia musica. Elementi che probabilmente, se non li avessi pensati per un film, non si sarebbero mai sviluppati in questo modo. Quindi penso che vivere con Miriam mi abbia permesso di aprire i miei orizzonti e di affrontare la musica da altre prospettive. Ora mi sento molto più libero di pensare alla musica senza per forza pensare subito a dei ritmi da associare. E’ anche per questo che è passato così tanto tempo dall’uscita di “Modus Operandi” ad oggi. Tre anni sono un bel periodo per incidere un nuovo disco. La ragione però c’è ed è molto semplice. Ai tempi dell’uscita di “Form & function”, in verità, avrebbe potuto uscire un nuovo disco. Ce l’avevo lì, già pronto. Era solo da mixare definitivamente. Ma non mi convinceva. Decisi che avrei buttato via tutto il materiale e avrei ricominciato da capo. E così ho fatto. Un paio di pezzi usciranno per la mia etichetta, la Photek Productions, ma il resto l’ho buttato via. E la ragione di questa scelta è che quando mi sono messo a risentire ciò che avevo fatto mi sono reso conto che quei pezzi erano una copia di ciò che avevo già fatto in “Modus operandi”. Non aggiungevano assolutamente nulla a quello che già era stato fatto. Era ancora drum’n’bass. Così mi sono detto: okay, ho bisogno di altro tempo. E così ho iniziato a scrivere i pezzi di “Solaris”.
Già, un disco in cui, per sentire un pezzo di drum’n’bass bisogna aspettare fino alla sesta traccia... E’ sorprendente, soprattutto considerando che tu sei uno dei nomi di punta della scena drum’n’bass...
Comunque c’è poca gente in giro che sa fare drum’n’bass, che produce buoni pezzi...
Ci sono parecchi brani che fanno pensare all’house dei primi tempi, a un classico come “Dextrous” di Nightmare on Wax. Hai pensato alla pista da ballo mentre li scrivevi?
No, anche se non mi dispiacerebbe se uno dei brani di “Solaris” diventasse un hit nei club.
Quale pensi che potrebbe avere delle chance di diventarlo?
“Glamourama” credo che abbia delle buone possibilità.
Mi dici qualcosa di questo pezzo. Mi sembra una versione dark, quasi paranoica di “Sueno latino”.....
Oh, sicuramente quando ho scritto questo pezzo avevo in mente “Sueno latino”. Il brano però è stato scritto partendo da questo monologo che ho preso da un film di mia moglie (“Vedette”, n.d.r.), un monologo in italiano recitato da un’attrice olandese in cui viene a galla una tipologia tipica di certe persone dell’alta borghesia, un pò viziate, che pensano di avere dei problemi che però non sono reali. Si costruiscono un mondo tutto loro, un mondo pieno di fantasmi, di problemi inventati. E’ per questo che ho pensato di chiamare il pezzo “Glamourama”, come il libro di Brett Easton Ellis. Il monologo ricorda moltissimo quelle ambientazioni decadenti, da anni 80, dei romanzi di Ellis.
Quali credi che siano le altre differenze principali tra “Solaris” e il tuo album d’esordio? Come è cambiato il tuo “modus operandi”?
Quando ho iniziato a lavorare per “Solaris” l’unica cosa che avevo in mente era che volevo un disco più caldo, più umano, più naturale, più emozionale di “Modus operandi”. In “Modus...” mi ero concentrato, in maniera quasi maniacale, sull’aspetto tecnico della musica. Sui singoli suoni, sui singoli ritmi. “Modus” era un disco pieno di tensione. Un disco direi, militante. Un disco di un integralista del drum’n’bass, di un maniaco della programmazione e delle macchine. In “Solaris” ho lasciato perdere la tecnica e ho lavorato in modo più spontaneo, più rilassato. E la cosa buffa è che ora, ascoltando “Solaris”, trovo ancora molte similitudini, soprattutto in fatto di suoni, con “Modus”.
(Gianpaolo Giabini) |