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«HOW MUSIC WORKS - David Byrne» la recensione di Rockol

David Byrne - HOW MUSIC WORKS - la recensione

Recensione del 02 ott 2012

(McSweeneys, 332 pagine, 32 dollari)

Voto 10/10

La recensione


di Gianni Sibilla

C’è una scena, in “Waging heavy peace”, l’autobiografia appena uscita: Neil Young racconta della reunion con i Crazy Horse, dicendo che non vede l’ora di andare nel suo studio di registrazione e di “lasciar fluire la musica”. Se l’è costruito lui, quello studio, a sua immagine e somiglianza, nel suo ranch californiano. Perché il luogo è fondamentale nell’ispirazione dice Young.
Quante se ne leggono, di spiegazioni così… I musicisti, i più grandi, non sanno spiegare il loro talento. Di solito si definiscono come un “medium”, un mezzo attraverso cui scorre la musica. Non lo fanno neanche per posa (un po’ si, ma neanche troppo). E’ che non sanno come raccontare come nasce la loro musica senza ricorrere a metafore mistiche.
Non tutti, però. Il libro musicale di quest’anno non è la biografia di Neil Young (bella, poco storica e molto riflessiva/piscologica; ma questa è un’altra storia, ne parlerò un’altra volta). Non è una delle tante autobiografie ufficiali di questo periodo – colpa di “Life” di Keith Richards, che con il suo successo ha sdoganato il genere.
Il libro musicale di quest’anno è “How music works” di David Byrne (si trova in digitale su iTunes e Amazon a 11€).
Già, come funziona la musica? E si può spiegare? E spiegandola non si rovina la sua magia?
“Per me non ha avuto questo effetto. La musica non è fragile”, dice all’inizio del libro. Byrne è più algido e intellettuale, meno passionale e istintivo di Young: si sa, lo si capisce dalla sua musica intelligente, ma meno “calda”. Byrne è uno riflessivo, che spiega il suo lavoro così:
Fare musica è come costruire una macchina la cui funzione è suscitare emozioni tanto nell’ascoltatore quanto nel performer (…) L’artista è qualcuno che è addetto a costruire queste macchine
Il libro non è un’autobiografia e non è un trattato. E’ entrambe le cose e nessuna di queste due. L’indice include capitoli – che si possono leggere autonomamente – sulla creatività, sulla performance, sulla tecnologia, gli studi di registrazione, sulle collaborazioni, sul business, le scene musicali, l’educazione e l’amatorialità. Byrne pesca spesso dalla sua storia, racconta aneddoti, ma soprattutto ragiona. Usa fonti in maniera appropriata – libri seri, come un vero studioso – frutto di una ricerca approfondita, non solo dell’intuito. Ma il suo libro non è mai accademico e serioso.
Il primo capitolo (se ne può leggere un estratto qua) è forse quello più bello, ed è l’opposto della scena di Neil Young raccontata all’inizio. Byrne fa una sorta di “reverse engineering” della composizione musicale. Ovvero smonta il risultato finale per capire come sia stato costruito. La sua tesi è che i musicisti compongono in funzione del luogo in cui si sentirà la sua musica – che sia Bach o che sia un rocker indipendente.
Negli altri capitoli ci sono ragionamenti sulla quantizzazione della musica (sempre perfetta e al tempo al millesimo, grazie alla tecnologia), sull’importanza delle collaborazioni (“Pitchfork una volta ha detto che collaborerei con chiunque per un pacchetto di patatine”, dice. Ma poi spiega perché l’artista deve mettersi in gioco in continuazione).
Bello e illuminante il capitolo su business e finanza: racconta che per “Grown backwards” ricevette 225.ooo dollari di anticipo dalla casa discografica, spendendone 218.000 per la produzione (avrei potuto registrarlo con meno musicisti, dice, e avrei guadagnato di più; ma avrebbe avuto senso?). Arrivò a guadagnarne 58.000 con le vendite, ma dopo diversi anni. Byrne ssamina per filo e per segno tutte le spese e conclude che quei giorni sono finiti.
Per un po’ il music business è sembrato un universo parallelo utopico. Vedere Elvis nella cadillac rosa, il palazzo della Capitol, Bruce Springsteen che rimane in studio per tre anni per incidere Born to run. (…) Fare musica oggi, come una volta, ha un valore di per sé, con un’altra compensazione che non è soltanto economica.
E poi esamina i modelli di contratto, esamina le condizioni che creano una scena musicale (che, guarda caso, sono le esattamente condizioni che hanno creato la scena del CBGB’s a NY negli anni ‘70, dalla possibilità di suonare materiale originale, all’attirare gli artisti anche quando non suonano, con birre gratis e affitti bassi in zona). Chissà se “How music works” verrà mai tradotto in Italiano – Bompiani aveva tradotto i suoi “Diari della bicicletta”, tempo fa. Sia quel che sia, anche in inglese – molto scorrevole, poco tecnico – questo è un libro che ogni appassionato di musica dovrebbe leggere e studiare.

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