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«DAISY JONES & THE SIX - Taylor Jenkins Reid» la recensione di Rockol

Taylor Jenkins Reid - DAISY JONES & THE SIX - la recensione

Recensione del 10 set 2020 a cura di Franco Zanetti

Sperling & Kupfer, 342 pagine

Voto 7/10

La recensione

La metodologia della “oral history”, come ho già spiegato recensendo lo scorso maggio “Joy Division” di Jon Savage, consiste nel raccontare una storia solo ed esclusivamente attraverso le testimonianze virgolettate dei testimoni oculari, cioè di chi di quella storia è stato a vario titolo protagonista o comprimario. E’ una formula faticosa, perché richiede molto tempo, molto lavoro e molta capacità di selezionare fra centinaia di ore di interviste sbobinate – cioè trascritte – i passi che più sono funzionali alla ricostruzione degli avvenimenti.

Con una mossa interessante, Taylor Jenkins Reid – già autrice di successo con “The Seven Husbands of Evelyn Hugo” – applica una formula tipicamente cronachistica alla fiction; perché ha scelto di raccontare le vicende di una band statunitense immaginaria degli anni Settanta come se fossero realmente accadute, cioè procedendo nella narrazione attraverso le frasi virgolettate con cui i (fittizi) protagonisti rievocano i fatti dei quali sono stati testimoni.

L’autrice ha raccontato di aver escogitato questo espediente durante la visione di un videodocumentario di tre ore sugli Eagles, e non nega che la protagonista del suo libro debba qualcosa a Stevie Nicks dei Fleetwood Mac. Sta di fatto che negli Stati Uniti il volume ha venduto molto, ed è stato ancora più apprezzato nella versione audiolibro (alla quale infatti è adattissimo), tanto che Amazon ha deciso di trarne una serie televisiva in 13 puntate.

A mio avviso, su carta il format “oral history” applicato alla fiction è poco più di una trovata: impedisce di approfondire la psicologia dei personaggi immaginati, che naturalmente non hanno corrispondenza con persone realmente viventi o vissute, e note al lettore, e alla lunga – nemmeno troppo alla lunga – mostra la corda. L’ambientazione è molto stereotipata – sesso droga e rock’n’roll, cos’altro? – e l’impossibilità di riferirsi a dischi e canzoni effettivamente esistenti è un oggettivo limite (per la serie tv sono stati ingaggiati autori per la composizione dei brani musicali; in appendice al libro l’autrice ha voluto collocare alcuni testi scritti da lei, ma non – ancora? – musicati).

Sicché alla fine, tirate le somme, il libro è una storia d’amore ambientata nel mondo della musica rock. Se vi piace il genere, vi divertirà.

(Nota finale per il traduttore, Stefano Bortolussi, assai apprezzato per il suo lavoro su James Ellroy, Stephen King, Frederick Forsyth, e “appassionato di un certo tipo di rock lirico e fantasmatico”: la parola inglese “verse”, nel linguaggio delle canzoni, significa “strofa”, non “verso” – pagina 153: “Dal punto di vista della struttura, i suoi versi erano meglio dei miei. Ma non aveva ancora trovato un bel ritornello”. “Le sue strofe”, appunto).

Franco Zanetti

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