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«ALL BORN SCREAMING - St. Vincent» la recensione di Rockol

All born screaming: discesa all'inferno e ritorno per St. Vincent

Nel suo settimo disco si sente la grande influenza di David Bowie. Con lei Dave Grohl e Cate Le Bon.

Recensione del 26 apr 2024 a cura di Michele Boroni

Voto 8.5/10

La recensione

Lo scorso anno abbiamo visto St. Vincent  esibirsi in performance molto diverse tra loro: al Tonight Show con The Roots su una canzone dei Portishead, per l'organizzazione Love Rocks NYC in una cover di “Young Americans” di David Bowie e cantando “Running Up That Hill” per introdurre Kate Bush alla Rock and Roll Hall of Fame. Tre live act straordinari dove traspariva il suo grande ed eclettico talento a servizio di altri. Nel frattempo negli studi di Los Angeles, all'Electric Lady a New York e a quelli di Steve Albini a Chicago, Annie Clark (vero nome di St. Vincent) stava costruendo il disco più intenso e intimo della sua carriera.

Un disco personale 

“All Born Screaming”, il settimo album di St. Vincent uscito oggi, è un disco per la prima volta interamente prodotto dalle cantante texana (con un piccolo aiuto di Cate Le Bon nella title track) e che si distacca molto dal precedente “Daddy's Home” in cui si immergeva in un personaggio e in un periodo storico (la New York tardi anni '70) lontanissimo da lei, per parlare di storie e atmosfere vissute dal padre in gioventù.  
Qui invece si tratta di una raccolta di canzoni estremamente personali scaturite dalla perdita di persone a lei vicine e con due parti ben distinte: la prima estremamente drammatica, quasi apocalittica nei temi e nei suoni, mentre la seconda in cui si intravede un barlume di speranza, di amore e di bellezza che ci aiutano a continuare a vivere perché, come ha detto a Rockol nell'intervista che le abbiamo fatto, “questo disco parla fondamentalmente di come la vita sia impossibile, eppure possiamo viverla”. Una sorta di discesa all'inferno e ritorno. Se nei dischi passati St. Vincent sembrava voler comunicare ma sempre nascondendosi dietro a un personaggio o a un contesto appositamente costruito, oggi Annie Clark si pone in una modo al contempo fragile e feroce, ponendo il proprio talento di scrittura e di composizione come sull'orlo del baratro.   

All Bowie Inspiring

Musicalmente e stilisticamente “All born screaming” è molto vario, saltando come un flipper tra dream pop, industrial, grunge e prog e rispecchia l'eclettismo artistico dell'autrice e performer, senza lo zampino furbetto e normalizzatore di un produttore come ad esempio Jack Antonoff - che produsse i due precedenti dischi. In questo lavoro l'ispirazione di David Bowie è molto forte e la si percepisce da molti aspetti: innanzitutto in “The Power's Out” che cita sia nell'intro di batteria sia nel testo aggiornato “Five Years” tratto da Ziggy Stardust, mentre l'intro di “Big Time Nothing” mette insieme il Bowie di “Golden Years”, David Byrne e Prince. E poi alla batteria in alcuni pezzi – come nella bellissima torch song cinematografica “Violent times” - c'è Mark Giuliana, batterista di formazione jazz che Bowie chiamò per il suo ultimo “Blackstar”. Ma soprattutto in St. Vincent c'è, da sempre, molto Bowie nella capacità trasformativa e di reinvenzione nonché nell'approccio teatrale. Tutte queste influenze passano però sempre attraverso il talento e la sensibilità artistica di Annie Clark. 
Ogni canzone si evolve ascolto dopo ascolto, così si percepisce il metodo di lavoro in molte canzoni come “Broken Man” nate in jam di musica post-industriale – come ci ha rivelato nell'intervista – a cui poi si aggiungono le chitarre rock,  come rock è la straordinaria “Flea” che parte come una PJ Harvey su una base dei Nirvana (alla batteria c'è Dave Grohl) e poi sfocia in un pezzo prog à la Genesis. Tutte le canzoni hanno un dinamismo invidiabile a partire da “Reckless” fino a “So many planets” intrisa di reggae.  

Immagini potenti  

Anche i testi meritano un approfondimento. Come già anticipato le liriche della prima parte sono particolarmente inquietanti e dure: in “Reckless” che descrive tempeste e naufragi («ti piango dal giorno in cui ti ho incontrato / vieni sul mio cammino, ti mangerò e ti farò a pezzi, o mi innamorerò») o nella  già citata “Flea” che parla di bullismo e che utilizza la metafora di insetti che banchettano su un cadavere. Mentre “Sweetest Fruit” si apre con un'ode alla produttrice di musica elettronica Sophie morta nel 2021 cadendo dal tetto in cui si era arrampicata per osservare meglio la luna. Nella già citata “The Power's Out” la Clark affronta il tema dell'apocalisse legata a un definitivo black out con immagini forti che a me hanno ricordato certi felici testi di Lucio Dalla («"signore e signori ricordatevi di me che sorrido" / disse la queer sul treno mentre saltava giù dal binario / e alcuni ciechi trattenero la polizia piangendo»). Mentre in “Violent Times” racconta poeticamente come si può amare in tempi di guerra. 
Insomma, merita un posto d'onore tra i dischi dell'anno. 

 

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