St.Vincent, la vita, la morte e tutto il resto

Ad ogni disco che esce, scopriamo una nuova St. Vincent. O meglio, ogni suo album rivela una parte della complessa persona, artista, songwriter e polistrumentista che è Annie Clark.
Nei primi tre dischi, nella seconda metà degli anni zero, si presentava come una sorta di Pollyanna tra indie rock, jazz e cabaret, poi sofisticata strega post-moderna, in seguito una mistress elettrica in latex per “Masseducation” del 2017 e infine nel 2021 si trasforma in una sorta di cosplayer di Candy Darling, musa di Andy Warhol nella New York soul funk anni 70 per “Daddy's Home”
Il prossimo 26 aprile uscirà “All Born Screaming” il suo settimo e bellissimo album, il primo totalmente autoprodotto (con un piccolo aiuto di Cate Le Bon in un paio di canzoni) e Rockol ha avuto la straordinaria occasione di scoprire parlando con lei quale lato di St. Vincent emerge in questa nuova avventura discografica.
Contrariamente all'opinione che gira intorno a lei, Annie Clark è persona gentilissima, disponibile, dolce e anche divertente nella conversazione, nonostante il disco sia in gran parte estremamente amaro e duro. Ci siamo quindi fatti raccontare da lei la genesi di “All Born Screaming”
“Con questo disco volevo trovare un nuovo modo di comporre musica che non fosse la classica sessione col piano o con la chitarra. Questa volta avevo bisogno inizialmente del caos che desse una nuova elettricità. Così mi sono contornata di synth analogici e modulari e ho passato ore e ore a fare jam di musica post-industriale e altra roba strana senza avere un'idea precisa di cosa sarebbe venuto fuori. A maneggiare la musica in questo modo ti senti un po' un Dio: ma alla fine non si trattava di un caos fino a stesso, perché poi questa flusso di elettricità creativa doveva diventare una canzone. Alla fine è quello che faccio con la musica, dare un senso al caos”.
Questo è il tuo primo disco autoprodotto. Immagino che fosse una cosa che volevi fare da tempo. Cosa ti aveva frenato?
Beh, in realtà ho sempre co-prodotto i miei dischi e ho iniziato a registrare da quando avevo 14 anni, passando tutti gli step di evoluzione tecnologica, prima su un quattro tracce e poi con i primi software di registrazione digitale. Però per i temi trattati questo era un disco che potevo produrre solo io, avevo bisogno che ci fosse proprio la mia “voce” da produttore che è diversa da quella che ho solo da musicista, autore o cantante. Ecco, avevo bisogno di scoprire quale fosse la mia voce da produttore.
E a cosa somiglia questa voce?
Mmhh, a quella di un architetto che realizza il progetto e che poi si fa aiutare da vari specialisti.
A tal proposito, deve essere molto bello essere l'unica persona che decide quale musicisti coinvolgere. Ok, qui voglio Dave Grohl, invece qui vorrei un batterista tipo Mark Giuliana, qua i cori di Cate Le Bon. È stato facile coinvolgere tutti questi musicisti?
Beh, per fortuna hanno tutti risposto al telefono quando li ho chiamati! (ride) E questo è stato il primo buon segno. C'è da dire che con Dave siamo amici fin dai tempi in cui suonava con i Nirvana e Cate è una delle mie migliori amiche da quando apriva le date del mio tour di “Strange Mercy”.
Mark Giuliana invece non lo conoscevo. Lui era il batterista di “Blackstar” di David Bowie, un disco che ho amato alla follia. Per alcune canzoni avevo in mente proprio quel tocco di batteria. È davvero una benedizione che abbia accettato di suonare per me.
Veniamo ai contenuti del disco. La prima parte è molto drammatica e brutale come se tu avesse voluto concentrare tutta la parte più oscura e dura della tua vita. Perché questa volta hai deciso di usare immagini così forti e potenti?
La mia idea per la prima parte di questo disco era quella di rappresentare una stagione all'inferno. È come guardare tutta la bruttezza e violenza che c'è nel mondo. Ma poi la seconda metà è naturalmente come la vita. Insomma, la vita è dura e la sofferenza è endemica nella condizione umana, ma tutti noi ma abbiamo anche la capacità di vedere e creare tutta questa gioia e bellezza che c'è intorno a noi; fa tutto parte dello stesso continuum. Non si ottiene l'uno senza l'altro. L'essere in contatto con la morte di persone vicine ti permette di chiarire bene le idee su ciò che conta davvero e cosa no, e credo che questo sentimento sia piuttosto universale.
Musicalmente hai scelto di raccontare tutto questo in modo molto minimale. E quindi alla fine le lunghe jam di cui parlavi prima si sono piuttosto scarnificate, con molte chitarre anni '70. Sei molto esigente come produttore?
Sì, lo sono, ma soprattutto con me stessa. Sono stato fortunata a lavorare con persone che sono musicisti incredibili, ma anche, amici e persone con ottimo gusto. È successo che a volte qualcuno veniva da me spontaneamente con un'idea differente da ciò che avevo previsto e ho preferito andare con quello. Io penso che il processo creativo debba essere una continua scoperta. Devi avere le antenne sempre dritti e fidarti della tua pancia.
Ogni tuo disco è sempre caratterizzato da una scelta estetica ben precisa sia nei tuoi video sia nell'outfit del tuo tour. Ci sarà anche per “All born screaming”?
Beh, sì, certo, Il look è sempre legato al significato del disco e quindi in questo caso, sarà totalmente bianco e nero. Ma anche la potenza distruttiva ed energetica del fuoco.
In “Masseducation” e in “Daddy's Home” ero davvero interessata all'idea di creare un personaggio, dissezionarlo e giocarci. Si trattava di un modo alternativo per arrivare alla verità e per parlare di me.
Per questo disco voglio invece essere il più diretta possibile. Oggi particolarmente che la vita è talmente breve e quindi non c'è tempo da perdere. Sento di dover parlare solo di cose che contano. Sento artisticamente che oggi ho un'urgenza.
Possiamo quindi dire che questo disco è probabilmente il tuo più autobiografico?
In realtà tutti i miei album sono autobiografici e sono tutti incredibilmente precisi su quello che sta succedendo nella mia vita. Credo però che in questo caso cambi il mio approccio al materiale. Insomma, in questi ultimi anni ho affrontato un sacco di perdite e ho un dolore improvviso e inspiegabile. Tutto per me oggi è bianco e nero. Voglio dire, sei vivo o sei morto. Non c'è davvero qualcosa in mezzo di cui sono a conoscenza.
“All born screaming” è un bellissimo titolo, molto sintetico ed evocativo. È una citazione o è una tua idea?
Sinceramente non so se sia una citazione da qualcosa, penso sia un'espressione o qualcosa del genere. È solo qualcosa che mi è venuto in mente quando scrivevo la canzone.
Tutte le canzoni di questo disco sono eccellenti. Io amo particolarmente “Powers Out” che parla di un gigantesco blackout ma che nasconde anche altro. È legata a qualche episodio in particolare?
È solo una grande metafora. In realtà la mia intenzione era quella di creare un aggiornamento di “Five years” di David Bowie (ndr: canzone contenuta in “Ziggy Stardust”). Si tratta di un riflessione che faccio spesso: cosa faremmo tutti noi se il mondo stesse finendo. Quindi questa è la tua preferita?
Direi di sì. Anche se “Violent Time” mi sembra già un classico.
Eh sì. È una torch song, in realtà potrebbe diventarlo davvero un classico. L'idea di base era quella di trovare la bellezza in circostante brutali....
Mentre la conversazione stava prendendo una piega interessante e rilassata, ecco che arriva il severo publicist per dire che il tempo a disposizione è terminato. Non prima però di ricordare a St. Vincent di quel suo concerto a Firenze insieme a David Byrne, a cui assistetti, data che si ricorda perfettamente perché fu l'ultimo di quel memorabile tour e poi perché rimase in città per alcuni giorni “e furono indimenticabili. Firenze è sicuramente nella mia top 3 di città del mondo”.