Perché la musica italiana ha bisogno di Samuele Bersani

"Canzoni d'amore altamente nocive per un cuore già troppo pulsante": quando ho sentito queste parole, quando ho sentito il primo singolo "Harakiri" ho tirato un sospiro e ho pensato: finalmente una boccata d'aria. Samuele Bersani è tornato. Domani pubblica "Cinema Samuele" a sette anni di distanza da "Nuvola numero nove".
Finalmente un album-album e delle canzoni-canzoni, dopo la sbornia di tormentoni tutti uguali, quelli che sembrano creati con un generatore automatico: prendi un cocktail, una località esotica, due featuring, usa quel ritmo, fai quel video, shakera bene, e zac. Non fraintendetemi: amo il pop, la leggerezza totale ci vuole, ogni tanto. E so benissimo che il successo e i numeri dei tormentoni permettono all'industria della musica di investire e pubblicare altri album, che hanno un pubblico più ristretto: è un meccanismo che è nato ben prima dello streaming. Questo non è un articolo contro l'invasione del reggaeton (anche se...). E so benissimo che la musica italiana è ricca di autori e autrici che hanno il loro stile e hanno buoni risultati.
Questo è un articolo per ricordare quanto è bravo Samuele Bersani, per dire quanto è bello "Cinema Samuele": ce ne vorrebbero di più come lui, ci vorrebbero più album come questo. Farebbero bene alla musica e all’umore in generale, anche se è impossibile, perché Samuele è un unicum, con la sua capacità di unire profondità e leggerezza, semplicità e complessità, con il suono giusto (ottimo il lavoro su questo album di Pietro Cantarelli).
Mi sono innamorato di questo album fin dalla copertina e dal racconto: l'idea che le canzoni siano film non è nuova, per carità: ma è eseguita da "Cinema Samuele" in maniera magistrale. "Non è un lavoro in pellicola ma ha l'ambizione di esserlo. Il più bel complimento che mi è stato fatto è quando una ragazza mi ha detto: 'tu scrivi cortometraggi per non vedenti", ha raccontato Bersani alla presentazione di oggi - che ovviamente si è svolta in un cinema." Prima ho scritto le musiche come delle colonne sonore, senza melodie. Il resto è arrivato dopo", ha spiegato, dopo avere accennato ad un periodo di buio, in cui non riusciva a scrivere.
Nel disco ci sono diversi riferimenti al grande schermo, non solo in Harakiri: “Ho un miliardo di pixel senza essere Spielberg”, esordisce in “Pixel”. E poi gioca sul fatto di costruire racconti cinematografici in cui i personaggi si confondono con il narratore: “Indovino il cattivo di un film/anche in meno di dieci secondi” ("Mezza bugia”). O ancora, quando canta “È un dono che mi porto come un peso enorme e faccio a meno di abusarne” non sai se sta parlando di un personaggui o di sé, e dei suoi tempi e modi di fare musica. Lo stesso quando ironizza sulla stampa: per una volta un artista che non si lamenta dei giornalisti, ma racconta il rituale de “L’intervista” ironizzando su tutte le parti in gioco, a partire dagli artisti: “Il tempo che il supremo artista/mi può concedere è un briciolo/durante il quale non si presta /a raccontarmi i suoi progetti / o almeno una novità e mi risponde scocciato /sono le 10 ed è già /completamente ubriaco”. "Mi sono messo nei vostri panni quando avete a che fare nei vostri panni quando avete a che fare con dei fenomeni che sono più arroganti che interessanti", racconta Samuele. "Ma è anche una canzone sul sopruso. Per me il modello è Lucio, che era l'opposto: era uguale con il giornalista e con la persona incontrata per strada. Ci sono artisti che già a 20 anni mi stanno sui coglioni".
C’è anche un po’ di polemica su come passiamo la nostra vita di fronte ad uno schermo, a partire da "Pixel". Ma a dominare anche qua è l’ironia, non l’invettiva: "Non conta altro più di quello che clicco/Da quanto non mi vedi con il collo dritto?/Mi muovo in ogni parte del mondo senza viaggiare, sai/che non ho mai preso neanche un aereo? “(“Scorrimento verticale”)
Qualche tempo fa ho letto un'intervista al semiologo Paolo Fabbri, poi mancato lo scorso giugno. Diceva che la nostra società è ossessionata dalla "quantofrenia", ovvero "la tendenza a quantificare la realtà attraverso i sistemi di big-data". È assurdo, diceva Fabbri, perché i numeri non danno il senso del testo, non restituiscono il suo valore.
Ecco, vale anche per la musica. Ed è bello che escano dischi come questo che sfuggono ai generi, alle mode, e ai meccanismi dei soliti conteggi. La musica ha bisogno del pop, dello streaming e di tutto ciò che gli gira attorno, ma ricordiamoci che non è l'unica strada possibile, come una lettura delle classifiche potrebbe farci pensare.
L'antidoto è più dischi come questo: “La luce filtra dalle grate e i grilli fuori cantano il disco dell’estate” - ecco, i tormentoni lasciamoli ai grilli, ogni tanto, e godiamoci la luce che filtra da queste canzoni.