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Torna *Eric Clapton*, pellegrino del Blues

"The Pilgrim" è il titolo dell’album che riporta il nome di Eric "Slowhand" Clapton in giro per il mondo. Un album che ci riconsegna un Clapton minimale e accorto, capace di tramutare quegli scivoloni nel commerciale che da sempre costituiscono il suo punto debole maggiore in un pregio non indifferente. Il Clapton visto a Milano è un maturo e sorridente uomo di mezza età, desideroso di parlare del suo album senza scontentare nessuno, innamorato della musica e della gente più di qualche decennio fa....

Dove e quando è stato registrato questo disco?

E’ iniziato tutto a Los Angeles due anni fa, nell’agosto del ’96, ma purtroppo ci sono stati dei problemi. Non ero soddisfatto del modo in cui avevamo registrato i brani, per cui ci siamo trasferiti a Londra e lì ho ripreso a lavorare con Simon Climie, che è il mio partner naturale ormai, abbiamo realizzato delle basi di batteria che avessero anche delle parti di tastiere molto scarne e iniziato a lavorare a parte delle canzoni. Avevamo già in mano qualche base e il nuovo pezzo che Dylan mi aveva mandato, così gran parte del tempo trascorso a Londra è servito in realtà per scrivere le nuove canzoni. Un lavoro molto duro e a volte frustrante, soprattutto quando le canzoni non ne vogliono sapere di venire...comunque, per fare questo disco abbiamo impiegato un anno e mezzo, ma ne sono molto orgoglioso.

A cosa si riferisce il titolo del disco, "The Pilgrim"? Ti senti un pellegrino dal punto di vista musicale, dal momento che si trovano nelle canzoni echi di altre culture e altri suoni, oppure umano, come chi non riesce a trovare pace?

Entrambi. C’è una canzone sull’album con quel titolo in cui parlo dell’importanza di non lasciarsi andare. Ne parlo ad una donna all’interno di una relazione finita, e le dico che non posso fermarmi, ma in realtà avrei potuto intitolare il brano "Ottimista", visto che mi sembra di avere un atteggiamento del genere. Posso dire di essere un pellegrino tanto umanamente che musicalmente, visto che sono continuamente in cerca di nuovi risultati e di nuovi approdi.

Di cosa parla "My father’s eyes"?

E’ una canzone che ho scritto sei anni fa, insieme ad altre canzoni che avevo scritto per l’unplugged, ed è la seconda canzone - insieme a "Tears in heaven" - in cui parlo della perdita di mio figlio. Ho sentito molto la relazione tra la perdita di Conor e il non aver mai avuto un padre. Mi sono reso conto che sono stato molto fortunato nel periodo in cui sono stato a più stretto contatto con mio figlio, il componente maschile più stretto della mia famiglia, perché questo mi ha offerto la possibilità di avvicinarmi anche ai geni di quel padre che non ho mai conosciuto. E così nonostante la morte di Conor sia stata una terribile tragedia, penso che ci sia qualcosa in questa vicenda per cui comunque debba essere grato.

Qual’è la storia dietro "Circles"?

"Circles" è la prima canzone che ho scritto nel periodo immediatamente successivo alla morte di mio figlio, quando necessitavo assistenza e l’unica cosa in cui mi rifugiavo era la chitarra. Per circa un anno non ho fatto altro che tenere la chitarra in mano e quella progressione è stata la prima cosa che ho scritto. Aveva il potere di calmarmi, era come una medicina.

Il disco si chiude con "Inside me"....

Sì, possiamo dire che è il brano che chiude un ciclo. E’ una composizione sulle domande e sulle risposte, sulle risposte di cui abbiamo bisogno. Per quanto riguarda me, trovo che le risposte di cui ho bisogno sono dentro di me: è una canzone sulla triste condizione del mondo e su risposte che cerco di dare da dentro, per questo si intitola "Inside me".

Come è possibile, dopo una carriera così lunga e con così tanta brutta musica in giro ovunque, scrivere ancora delle canzoni così belle?

Ancora una volta la risposta è dentro di me. Cerco di tirare fuori da me tutta la musica buona che ho ascoltato negli anni. Per me questa canzone è stata come dipingere un quadro, quando penso a questa canzone vedo l’immagine di questo personaggio solitario, credo che il brano riguardi l’autoaccettazione, il saper accettarsi.

Parlaci del brano di Dylan, "Born in time"...

La ragione per cui ho fatto un suo brano sta nel fatto che me l’ha spedito. La prima volta che mi ha suonato quel pezzo era il 1989 e stavo registrando "Journeyman"; lui mi ha detto di ascoltare quello che sarebbe stato il suo nuovo album, che aveva su cassetta. Io gli ho detto che mi sembrava un ottimo disco, e poi lui mi ha chiesto un parere su una canzone, che era "Born in time" e mi ha detto "cosa ne pensi?". Io gli ho risposto: "E’ grande!" C’era un verso che mi era piaciuto molto: "You’re blowing down the shaky street", credo che fosse una delle frasi più belle del mondo. Così gli ho chiesto se aveva intenzione di registrarla e lui mi ha detto di no. "Posso farlo io?", gli ho chiesto, e lui mi ha detto: "Va bene". Così sono tornato in studio e dopo qualche tempo ho scoperto che lui l’aveva messa sul suo album: ci sono rimasto molto male, perché credevo che si sarebbe ricordato e così non l’ho più fatta. Poi sono passati quasi dieci anni e di recente mi ha chiesto: "E la mia canzone?", e io gli ho detto: "Cosa pensi che me ne sia dimenticato?", ironicamente. Poi però ho deciso di farla lo stesso, un po’ perché Bob me lo aveva richiesto e un po’ perché comunque ero onorato del fatto che lui si ricordasse ancora. Mi è piaciuto molto il risultato.

A proposito di passato, non pensi che un gruppo eccezionale come Derek & the Dominos sia stato molto sottovalutato dalla critica?

Sì, è molto triste, guardo indietro a quel periodo con molta frustrazione e tristezza, perché i problemi di droga e alcol che tutti avevamo a quel tempo hanno distrutto il gruppo sul nascere. Credo che altrimenti avremmo potuto fare due o tre anni veramente ad alti livelli, facendo dischi e concerti. Eravamo tutti coinvolti in storie di dipendenza, e così divenne difficile andare avanti. Altrimenti avremmo potuto fare grandi cose.

Se non ci fossero stati gli abusi ci sarebbero state altre "Layla" o senza quegli abusi non ci sarebbe stata nemmeno "Layla"?

E’ molto difficile togliere le droghe da quel quadro generale. Sono comunque fermamente convinto che ho creatività senza droghe. So che ero creativo anche prima di prendere droghe e so di esserlo adesso che non le prendo più. La domanda che mi faccio è un’altra: "Se non fossi stato così schiavo della droga, sarei potuto essere più creativo?"

Per non perdere la strada del blues hai spesso preso delle decisioni che hanno provocato perplessità nei tuoi fans: nella vita ti è mai capitato di cambiare strada, o di fermarti a fare una pausa?

Penso di aver imparato molto in questi ultimi anni su come stare al mondo, perché per difendere la mia sobrietà e la mia astensione dalle droghe ho dovuto imparare a dire di no anche quando avrei voluto dire di sì. Ho imparato a moderare i miei appetiti, ad apprezzare la mia compagnia, così quando mi capita di stare da solo non sento più la necessità di trovare qualcuno con cui stare. Ho imparato a stare con me stesso e a fronteggiare per conto mio i miei stati d’animo. Queste sono tutte cose che ho imparato di recente, che mi hanno fatto crescere, diventare un uomo in termini di realizzazione e di dignità. A volte è stata dura, ma adesso va sempre meglio.

Eri legato a Jimi Hendrix da un rapporto tanto di rivalità quanto di amicizia: hai trovato negli anni successivi un altro chitarrista con cui instaurare lo stesso tipo di rapporto?

Credo che uno con cui mi sia successa la stessa cosa sia Jimmy Vaughan: adesso è molto famoso, ma una volta era un chitarrista semisconosciuto, soprattutto rispetto a suo fratello più piccolo, Stevie Ray. Sento che Jimmy ha lo stesso tipo di integrità emotiva e musicale. E’ un grande chitarrista.

Hai mai visto sui muri di Londra anni ‘70 la scritta "Clapton is God" su cui si è tanto favoleggiato?

Ho visto la foto, e credo che in quel periodo fosse una sorta di moda, che nessuno ha preso sul serio...

Neanche tu?

Io sì, per un po’....

Il nuovo album sembra essere il risultato di un nuovo corso musicale, figlio delle scoperte ‘acustiche’ fatte con l’unplugged e dell’orchestra usata in "24 nights": un album molto semplice ed essenziale, dopo tutto. E’ così?

Sì, abbiamo provato a fare un disco togliendo cose, piuttosto che aggiungendole. Con Simon Climie ci siamo trovati a togliere tutto dal mix tranne la voce. Quando ascolto questo disco da un’altra stanza sento solo la voce, il basso e la batteria, però mi sembra che ci sia comunque tutto.

Hai mai lavorato con Neil Young e Robbie Robertson e ci sono cose che farete insieme?

Non ho mai collaborato con Neil Young, anche se spero di farlo prossimamente, mentre con Robbie ho lavorato a lungo su della musica che abbiamo registrato ed è già dentro qualche computer. Da quanto ricordo, ci sono cose degne di essere completate, per cui non è detto che in un futuro non torneremo a lavorare insieme.

Come ricordi la tua partecipazione al progetto ‘dance’ TDF?

E’ stata un’ottima esperienza. Ho lavorato in un modo originale, con programmatori, drum machines e cose del genere Tutto è nato dal fare le musiche per la sfilata di moda di Giorgio Armani: dopo lo show avevamo delle musiche che ci dispiaceva buttare e così, abbiamo scritto degli altri pezzi e l’abbiamo pubblicato con una sigla inventata.

Perché in Gran Bretagna c’è un grande recupero delle sonorità anni ’60?

Perché musicalmente la scena è un deserto. C’è la dance, che è l’unica entità potente, ma per il resto c’è molta perdita di individualità, in primo luogo da parte della gente e di conseguenza anche da parte degli artisti. Non c’è più sacrificio, ma solo voglia di arrivare subito. Anche perché a pochi viene data la chance di crescere con calma.

Andrai in tour con questo disco?

Sì, partirò in aprile negli Stati Uniti e sarò in tour fino all’estate dell’anno prossimo.

Verrai in Italia a suonare?

Sì, verrò il prossimo ottobre...

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