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Parliamo con *Antonello Venditti*

E’ inutile nasconderlo, Antonello Venditti ha più di un detrattore. Vuoi per il debordante amore per Roma (e per la Roma), vuoi per il suo essere a modo suo "dalla parte della gente". Ultimamente anche le sue scelte musicali, di solito considerate al di sopra di ogni sospetto per l’indubbio talento compositivo, ricevono critiche: Venditti copia altri artisti e copia addirittura se stesso, Venditti megalomane con l’orchestra di 130 elementi... Beh, noi di Rockol non ne potevamo più di sentir parlare di lui e ci siamo andati a parlare, chiedendogli conto di tutto ciò.

Allora Antonello, tanto per cominciare, cosa è successo con Sanremo?
Niente, perché non ci vado, punto. Non ci sono le condizioni tecniche. Ma tutti gli anni ci provano: ogni anno il mio nome salta fuori, per fare pubblicità al Festival. Ed io ogni anno me ne sto a casa. Non sto neanche a smentire le voci che mi danno presente, non sono il tipo che incarica un ufficio stampa di smentire. Tanto, è tipico di Sanremo, fare i conti senza l’oste. E così si protraggono strani malintesi.

Ma quest’anno c’era gente che conosci bene: Renato Serio nella commissione dei "saggi...
Sì, e poi Bardotti e Morricone. L’anno scorso c’era Piovani. Manco solo io. Ma non è praticabile, e non mi interessa. Devo dire comunque che mi meraviglio come ancora Sanremo sia visto come una cosa seria. Non è che un varietà, un fatto televisivo. Da quando la tv è entrata pesantemente nell’evento, Sanremo ha troppi padroni. E alla fine finisce per non averne neanche uno in grado di dirigerlo in una direzione.

Parlando di televisione, tu con la tv hai uno strano rapporto. Alcune delle tue apparizioni sul piccolo schermo mi sono rimaste molto impresse, più di tante ospitate dei tuoi colleghi. Ti ricordo tanti anni fa al telegiornale, poi ospite di Michele Santoro, e in anni più recenti da Costanzo. Davi l’impressione - lo dico in senso positivo - di essere totalmente incompatibile con il video, un pesce fuor d’acqua rispetto agli altri personaggi pubblici o cantanti in tv, ma anche di qualcuno che non sta al gioco della televisione. Raramente si era visto Costanzo, che pure ti conosce bene, così in difficoltà con un ospite.

E’ vero, e molta gente mi ha confermato che nel bene e nel male con quelle apparizioni non musicali ho lasciato un segno. Ho ricevuto più lettere, telefonate, consensi e pacati dissensi quando sono andato lì a esprimere ciò che pensavo, che non quando sono andato semplicemente in veste di musicista. Evidentemente da uno come me ci si aspetta qualcosa di più che cinque minuti di canzone. Del resto credo che a chiunque faccia piacere vedere qualcuno che dice cosa pensa. Penso che andare in tv a cantare non serva poi molto, per far ascoltare le canzoni c’è la radio. Do per scontato che la gente sappia che sono un cantante, e che ho fatto un disco. Per quanto riguarda il mio modo di presentarmi in tv, ammetto di essere abbastanza ingestibile...

La musica in tv, annosa questione...
La musica va praticata. Il rapporto tra televisione e musica è sempre conflittuale. O fai una cosa per la tv o per il pubblico. Dal punto di vista strettamente musicale, le cose che faccio più volentieri per la tv sono i concerti dal vivo, cose come Piazza Plebisicito, dove la tv si limita a documentare. Se no, quello che ti ritrovi è la tv che entra nel tuo concerto, invece che il concerto che va in tv, e quello che viene a mancare è la verità dell’avvenimento.

Tu comunque hai fatto diversi video.
Sì, ma il video mi interessa solo come fatto promozionale. L’apparizione in prima persona è molto più convincente, pur con tutti i limiti del mezzo televisivo. Col video dai un messaggio che è sempre quello, come nel disco.

Parlando di dischi, hai sentito cose interessanti, ultimamente, da parte dei tuoi colleghi?
Beh, i colleghi ho la fortuna di conoscerli, e forse ho un’idea di loro che prescinde persino dai dischi. La mia generazione ha avuto la fortuna di essere lì all’inizio di tutto. Io ho visto Jimi all’isola di Wight, i Beatles a Roma, i Rolling Stones quando erano i Rolling Stones, ma abbiamo avuto anche influenze culturali che oggi sono un po’ sottaciute, ma quella francese era fortissima. Forse proprio per aver visto nascere il tutto e aver contribuito a dargli un senso logico, dovremmo prenderci la responsabilità di andare oltre quello che è già stato fatto.

Sono un po’ preoccupato invece dal fatto che la generazione che dovrebbe sostituire la nostra sia così timida, e che si facciano così poche cose nuove. Credo che faccia parte di un problema più ampio, che è il problema dei giovani in Italia: la giovinezza viene letteralmente consumata.

Beh, ci sono voci che hanno una certa importanza e un seguito consistente: Jovanotti, Bersani, Max degli 883...
Hai citato due nomi che mi interessano molto, ma tranne Jovanotti, che rappresenta qualcosa, e ha già un pubblico compatto, e la bravura di Max Pezzali, ho l’impressione che tutto sia molto meno cementato alla realtà. Non vedo radici profonde. Ma può darsi che stia cambiando anche il concetto di canzone. I gruppi rap sono i nuovi cantautori, sono i loro testi quelli che raccontano meglio la realtà. Mi piace moltissimo Frankie Hi-Nrg, che ha scritto un pezzo straordinario...

"Quelli che benpensano"?
Assolutamente di prim’ordine. Mi piacciono anche Neffa e gli Almamegretta.

Tu hai iniziato ai tempi del Folkstudio, con un occhio alla scena internazionale degli anni ’60. Oggi, guardandoti attorno, cosa vedi? Pensi che il rock esista ancora?
Rock never dies... In tutti questi decenni il rock è sempre andato e venuto a ondate, legandosi non solo ai contenuti ma anche alla personalità di chi lo faceva. Che posso dire, c’è gente che comincia bene ma finisce male. Vedo male il rock più aspro, mentre è in auge un genere di ballata molto raffinata alla Verve. E’ interessante che siano più aggressive le donne, come Alanis Morissette.

Cosa ha significato per te prendere le tue canzoni e consegnarle a un’orchestra di 140 elementi? Mentre ci lavoravi, hai scoperto qualcosa di quelle canzoni e di te stesso che non sapevi?
Se ho scoperto qualcosa di me? Ci sarebbe da scrivere un romanzo. Un’esperienza psicanalitica: analizzi te stesso e altri analizzano te stesso. In ognuno di quei pezzi, che per me ha significato molto in un differente periodo, dovevo vedere se ancora mi ci riconoscevo o se è cambiato qualcosa nella mia personalità.

Comunque alla fine ti sei trovato in un "Paese delle Meraviglie".
Sì, ma la favola di Alice è la più inquietante, ti dà delle ansie, pur essendo una favola. Certo, alla fine il viaggio finisce bene. Mi ha insegnato molte cose. Magari per poter fare poi un ulteriore salto. E’ come se mi preparassi delle armi per "scavallare" il millennio. Ci tenevo a lasciare un segno di carattere universale nelle mie canzoni.

Ma non pensi che già lo avessero? Voglio dire, sono dei classici della canzone italiana, penso che tutti noi siamo abituati e affezionati alla forma musicale che hanno.
Beh, so che è un discorso che inevitabilmente avrà più impatto all’estero, perché è vero che in Italia la gente è abituata a sentire quelle canzoni in un certo modo. Ma questo sarà il primo album mio che una parte del mondo si troverà a sentire. Quando farò un tour lo farò in questo modo, perché trovo che con questa veste la mia musica abbia una forza di comunicazione fortissima.

Ho tenuto per la conclusione due domande critiche. Insomma, Antonello: "Ogni volta" somiglia parecchio a "Ricordati di me".
Certo, perché fanno parte di un trittico: ti sei dimenticato "Amici mai". "Ogni volta" è la somma di "Ricordati di me" e "Amici mai". E’ la canzone definitiva. "Ricordati di me" è una serie di appunti. "Amici mai" è già più concreta. Già in "Amici mai" c’erano elementi di "Ricordati di me". "Ogni volta" chiude un ciclo di "mood" e di musica.

Ultima domanda. Da milanese, ti ho sempre voluto chiedere una cosa: Roma è nel tuo cuore, mentre qualche anno fa di Milano cantavi: "E’ una città da ammazzare". Come fai a vendere ugualmente tanti dischi a Milano?
Quella canzone era per i benpensanti di allora: Milano negli anni ’70 rappresentava la contraddizione più forte, il punto di scontro. Oggi la contraddizione è sfumata, i toni sono soft. E’ un’epoca in cui si premia Dario Fo... Insomma, ora ci danno le medaglie: il nobel a Dylan? Darglielo oggi è più semplice. E’ appropriarsene. Il significato di una medaglia in fondo è semplice. Significa: fai parte della nostra truppa e hai fatto molto per noi. E se le danno a qualcuno che un tempo era scomodo e faceva male, vuol dire che oggi bisogna trovare altre frecce. In altri tempi Marlon Brando ha detto: no, io l’Oscar non lo voglio proprio. In altri tempi Fo non ci sarebbe andato, a ricevere il Nobel. Penso che accettandolo invece abbia dato legittimazione a quello stesso mondo dei Soloni contro cui si è battuto. Credo che anche in un momento della tua vita in cui ti incensano e ti lodano bisogna essere capaci di dire di no. La rinuncia oggi è molto importante. Oggi, più che allora.

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