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Parliamo Con *Africa Unite*

Africa Unite, come dire il reggae in Italia e non solo. Partiti da una musica che era specchio della passione per le sonorità e la poetica giamaicane, gli Africa Unite si sono a poco a poco indirizzati verso un suono e un percorso originale, sorretti in questo dalle sempre più nutrite schiere di pubblico che affollavano i loro concerti. La svolta artistica più recente del gruppo è rappresentata dall’album "Il Gioco", realizzato con la complicità di Mad Professor e maggiormente incline a privilegiare sonorità elettroniche e ‘tecnologiche’ rispetto al reggae in stile ‘Sunsplash Festival’ degli esordi. Un album enormemente maturo e carico di spunti che il gruppo svilupperà tanto dal vivo che nei prossimi dischi di studio. Della situazione della musica in Italia, di cosa significhi essere un gruppo ‘alternativo’, delle prospettive che si offrono ai musicisti in un mercato così incerto, abbiamo parlato con Mada, alias Madaski (il nome che usa nelle sue scorribande soliste improntate ad un tecno-core di grande potenza), progettatore del suono Africa Unite e remixer tra i più affermati in Italia.

Allora, Mada, come va?

Bene, grazie...

A che punto è il lavoro degli Africa Unite?

Be’, al momento abbiamo appena iniziato a riposarci un po’, visto che proprio a dicembre abbiamo fatto le nostre ultime date relative al tour dell’album "Il Gioco". Riposarci poi è una parola grossa, visto che io ho iniziato a lavoricchiare su qualcosa di quello che sarà il prossimo lavoro di Madaski, mi sono dedicato ad alcuni remix, e ho già messo da parte dei suoni che verranno buoni per il nuovo lavoro degli Africa. Bunna dal canto suo si sta riposando, ma sono sicuro che ha già iniziato a scrivere qualcosa...

Un bilancio finale sul tour?

Ottimo, come sempre dovrei dire. Dal vivo gli Africa Unite sono una forza, riusciamo a fare tour con svariate decine di date e a trovarci sempre di fronte ad interlocutori attenti e desiderosi di musica e di divertimento. Questo succede ovunque andiamo a suonare...

L’ultima volta che ci eravamo incontrati di persona eri su un palco al Salone della Musica di Torino a spiegare ai ragazzi cosa fosse il reggae: com’era nata quell’esperienza e che ricordo ne hai oggi?

Questa idea di parlare per le scuole era nata l’anno scorso: mi trovo molto bene a fare queste cose, forse per il mio passato di insegnante di educazione musicale, fatto sta che mi sembra di aver avuto successo in questa iniziativa. Quest’anno era una sorta di seconda puntata, maggiormente incentrata sulla spiegazione del rapporto tra fattore umano e tecnologico, rispetto a quella dell’anno precedente che aveva finito per essere un itinerario nella storia del reggae e dei suoi generi. Finalmente siamo arrivati al punto in cui iniziano ad esserci molte manifestazioni, che permettono ai musicisti di andare in giro per le scuole e spiegare ai ragazzi cos’è la musica e come la si fa. Sì perché in Italia tanti guai che abbiamo dipendono dalla scarsezza di educazione musicale, tanto pratica che teorica, che affolla le nostre scuole. La musica è meno che mai considerata cultura, ed è ormai ora che le cose cambino davvero..

Ma quanti - tra i musicisti che abbiamo in Italia - ce la farebbero a spiegare le musica con le parole?

Il punto non è quello. Non si tratta di un’impresa impossibile, i musicisti capaci ci sono. Bisogna vedere se hanno voglia di farsi lo sbattimento per fare queste cose, se sono disposti a scarnificare la propria musica, passaggio dopo passaggio, per fare notare ai ragazzi le radici dell’ispirazione di ognuno. Vorrei che lo facessero più persone, perché poi il riscontro è eccezionale. A volte arrivano delle domande tecniche alle quali non sappiamo rispondere neanche noi. Ci sono molti ragazzi ‘assetati’, bisogna dargli da bere di più....

Sulla scena musica italiana ormai c’è una forte discrepanza tra quelli che continuano ad essere considerati i musicisti nazional-popolari e quelli che sono in giro e piacciono ai giovanissimi. Al Salone ad esempio mancavano quasi totalmente i cantautori, eppure nessuno sembrava soffrirne più di tanto...

è un buon segno, è la testimonianza di un buon livello artistico e musicale. Il punto è che per troppo tempo si è pensato che quella fosse musica, e che anzi soltanto quella fosse la vera musica. La scena musicale sta finalmente cambiando, e ha iniziato a dare realmente spazio, anche in termini di informazione, a quelli che la musica la fanno davvero. Qui si suona la musica finalmente e quindi è stato fatto ormai uno scatto in avanti, si privilegia la musica vera e non quella di carta...

Non per fare l’avvocato del diavolo, però - anche se sono d’accordo con te - non posso non farti notare che di fatto la gran parte dei ‘nuovi’ gruppi vende poco. Qual’è il motivo secondo te e, in generale, vi sta bene vendere 10-20 mila copie di un vostro lavoro?

Io penso di farmi portavoce di tutti dicendo che non ci sta bene e che questa fascia va scardinata. Certo ormai ci sono indizi e casi recenti - come CSI o Neffa - e una serie di cose che stanno veleggiando su cifre maggiori, però credo che alla fine la musica non sia solo vendere dischi. Gli Africa Unite, ad esempio, vanno avanti da anni a suonare: la musica - dopotutto - va suonata, e con i concerti i musicisti bene o male vivono. Se poi si riuscisse a scardinare questa quota delle 20/30 mila copie sarebbe una cosa fantastica...e una bella cosa anche per la musica. Del resto non si può pensare di fare il musicista squattrinato a vita, per cui o si risolve questo aspetto o ci saranno sempre meno musicisti. Se è vero che le cose sono migliorate a livello strutturale, adesso però, oltre alle major che fanno le indipendenti, non ci sono più le indipendenti vere, e questo è un peccato. Se adesso qualcuno fa vendere 40 mila copie a una major, il merito è sicuramente del grosso lavoro fatto in passato dalle etichette indipendenti, perché nulla viene dal nulla.

In questo contesto musicale, qual’è adesso la situazione degli Africa Unite?

Noi siamo nella fascia che non si accontenta e che vorrebbe sancire un certo tipo di successo, che del resto ci è stato accreditato dai media con i tour, con i concerti, con gli attestati di stima. Rimane da colmare la distanza tra il numero di persone che viene ai nostri concerti e quello di quanti comprano poi i dischi. In un tour di 60 /70 date noi riusciamo a fare 100 mila persone, ma poi alla fine neanche un quinto di queste compra i nostri dischi... Il perché non l’ho ancora capito, anche se è vero che c’è l’abitudine, all’interno del nostro pubblico, di comprare un cd per poi registrarselo in venti. E’ un fatto che comunque gli Africa non riescono tuttora ad uscire dal target degli aficionados dei loro concerti, persone che si vivono il concerto come un’esperienza incredibile, totalizzante, ma che poi tornano a casa senza l’album. Sono altri, forse, che comprano i dischi: si tratta di un’altra fascia di persone e stiamo cercando di arrivare a farci considerare anche da loro. Stiamo lavorando per questo e speriamo di arrivarci: questo è un problema annoso che riguarda tutti, e che ci riporta al discorso iniziale, quello relativo alla mancanza di cultura e di educazione musicale. In ogni caso il nostro tipo di gavetta ci dice che a forza di sbattere la testa contro il muro, il muro prima o poi si crepa...

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