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Kelly Jones racconta perché 'bisogna arrivare prima di poter tornare indietro'....

Dici Stereophonics, e ti vengono in mente due cose: i gossip dei giornali inglesi, che hanno scelto il gruppo gallese come bersaglio prediletto. Poi, uno spot di un alcolico, con una canzone che faceva “tu-tududu-tu- tududu”, o qualcosa del genere: era la loro “Have a nice day”. Il successo oltremanica ha messo il gruppo al centro dell’attenzione, mentre in Italia si sono fatti notare soprattutto per uno spot. Prospettiva sbagliata, perché gli Stereophonics non sono né l’una, né l’altra cosa: sono un gruppo che cerca una strada, una via inglese al rock, senza troppe menate esterne, che invece inevitabilmente compaiono nelle forme appena citate. Questa ricerca verso il rock è testimoniata dal quarto album della band, “You gotta go there to come back”, che alterna ballate a cavalcate elettriche, echi pop a momenti più duri. Abbiamo incontrato Kelly Jones, bistrattato (dai media inglesi) leader della band: gentile e disponibile, lontano miglia dallo stereotipo della rockstar scontrosa, ci ha raccontato che…

L’impressione che, da “JEEP” a questo nuovo disco non abbiate mai staccato. L’ultimo singolo dal disco precedente è uscito appena un anno fa. Non andate mai in vacanza?
Si e no. Scrivo costantemente, è questo il fatto. Siamo stati in tour fino ad aprile, poi abbiamo fatto qualche data ai festival estivi, ma era poca roba.

Non hai paura che fare musica diventi una routine? Disco, promozione, tour e poi si ricomincia?
E’ una routine, certamente. Ma non è questa routine che mi spinge a fare questo lavoro, che mi dà delle motivazioni.
Cos’è, allora?
Amo scrivere canzoni, mi piace stare in una band e suonare. Non riesco a smettere di scrivere canzoni, e quando lo faccio voglio registrarle per farle sentire a più gente possibile. E per arrivare alla gente c’è bisogno della routine di cui sopra. Allora ricominci a viaggiare per il mondo: le stesse città, gli stessi hotel, le stesse persone…

Facciamo una domanda di routine, allora: qual è l’idea che ha guidato la creazione di questo nuovo album?
L’obiettivo era quello di fare un disco avesse passione e anima, che catturasse un’atmosfera. Se senti la musica che passa sui media, dalle radio ad MTV, puoi accorgerti che sono sempre di più canzoni a cui hanno levato proprio questi due elementi. C’è musica sempre più fatta in serie, gli stessi suoni, le stesse scelte… I cloni dei Pearl Jam vengono sostituiti dai cloni dei Blink-182, e così via. Volevamo evitare proprio questo, fare un disco originale e vario. Mi vengono in mente i dischi come “Talking book” di Stevie Wonder, “Sticky fingers” degli Stones, “Abbey Road” dei Beatles.

Hai citato due gruppi inglesi ed un artista americano. Però, ascoltando questo album la prima impressione è che il vostro suono sia sempre più ispirato dalle band d’oltreoceano. Sei d’accordo?
Si e no. Dipenda da cosa si intende per “suono americano”. In Europa ci dicono che suoniamo americani, ma quando abbiamo dato il disco alla sede statunitense della casa discografica ci hanno detto che non eravamo americani… Poi, l’America di oggi è tutta musica nera e hip-hop, c’è ben poco rock. Noi, semmai ci rifacciamo, al rock classico, quello degli anni ’70.

Ascoltando alcuni episodi del disco vengono in mente i Black Crowes.
…Che a loro volta si sono ispirati a Rolling Stones e Faces, che erano inglesi. E così il cerchio si chiude…

Nell’album ci sono anche alcuni fiati, che portano alla mente il pop orchestrale di Bacharach.
C’è un brano, “Climbing the walls” che è la mia versione di “Raindrops keep fallin’ on my heads”: una canzone dolce, con archi e fiati. E’ qualcosa di nuovo per noi come band, ma non come ascoltatori: abbiamo sempre ascoltato generi molti diversi, e qualche cosa alla fine affiora.

Tornando all’Inghilterra: da quelle parti siete uno dei bersagli preferiti dei media “pettegoli”. Nel disco precedente hai pure scritto una canzone, “Mr Writer”, al proposito. Com’è ora la situazione?
Peggio di prima… Quando ho scritto quel brano ero molto disilluso riguardo ai giornali inglesi. Un tipo di una rivista era venuto in giro con noi, avevamo mangiato e viaggiato insieme e lui si era finto nostro amico, per scrivere poi tutt’altro. Questo atteggiamento falso mi ha deluso molto, devo dire, e mi ha spinto a scrivere quel brano. Il risultato è che la stampa ha finito per parlare più del testo di “Mr. Writer” che del disco in sé: è come se quella canzone avesse messo in ombra il resto, e se come ogni giornalista pensasse che quella canzone fosse indirizzata a lui. Ma se i giornalisti hanno reagito a quel modo, significa che ho toccato un nervo scoperto…

Hai più incontrato quel giornalista?
L’ho visto. Ma non ho mai detto a nessuno chi fosse esattamente la persona che mi ha ispirato. Non vorrei dargli questa soddisfazione, finirebbe per vantarsene…

Un’altra domanda di routine, tanto per non annoiarci: qual è il significato del titolo dell’album, “Devi arrivarci per tornare indietro"?
E’ una sorta di processo nel fare musica, che è poi lo stesso della vita: certe volte bisogna fare una lunga strada per tornare al punto di partenza. Ho finito una parte della mia esistenza, ho chiuso una lunga relazione iniziata in una piccola città di provincia e ne ho iniziata un’altra in una grande città. Questi piccoli grandi cambiamenti ti danno il senso di come le cose si evolvono. Il nostro disco ha un buon “mood”, ma è costato molta fatica… Questo vuol dire il titolo.

Hai prodotto questo album, ed è la prima volta che ti cimenti in questo ruolo.
E’ successo tutto in modo molto naturale: stavo scrivendo nuove canzoni, e avevamo comprato delle attrezzature per registrate i concerti del nostro tour. Con Jim Lowe, questo tipo che gestiva le attrezzature, ho iniziato a buttare giù qualche idea. Con questi demo abbiamo iniziato a muoverci verso il suono che volevamo, siamo entrati in studio e l’abbiamo prodotto, tutto qua.

Il prossimo passo quale sarà? Andare in tour?
Si, tour e festival. Ne abbiamo già confermati un paio in Germania, non so se e quale faremo da queste parti. So già cosa stai per chiedermi… …A proposito di festival in Italia: Imola 2001, quando siete stati presi a bottigliate dal pubblico…
Già, ma non era una cosa contro di noi, chiunque è stato preso a bottigliate quel giorno. Le band erano sbagliate per quel pubblico. Non avremmo problemi a rifare quel Festival, comunque.

Una curiosità: in Italia una delle vostre canzoni, “Have a nice day”, è stata usata nello spot di una bevanda alcolica, che aveva per protagonista Gwineth Paltrow. Come mai questa scelta?
Ce l’ha chiesto la nostra casa discografica, e abbiamo detto di si perché abbiamo pensato potesse darci una mano, e così è stato. Non prestiamo la nostra musica alla pubblicità solitamente, non siamo il tipo di band che punta su quel tipo di marketing. E poi quella canzone così “pop” si prestava… Devo dire che non è il mio genere preferito di canzoni, preferisco suonare rock. Ma ogni tanto mi vengono, e anche sul disco nuovo c’è una canzone in quella vena, “Getaway”. Quando mi capita di scrivere in quel modo, non posso fare che lasciarmi andare.

(Gianni Sibilla)

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