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Dopo cinque anni di assenza, uno dei cantautori americani più amati è tornato. Ecco dov’è stato…

Pantaloni color cachi, maglia grigia, stivaletti e occhialini quasi trasparenti. E tanta disponibilità e gentilezza. James Taylor, 54 anni, uno dei giganti della musica internazionale degli ultimi decenni, si è presentato così all’incontro con la stampa che ha preceduto la sua esibizione gratuita a Piazza del popolo, a Roma.
L’artista di Boston ha appena pubblicato un nuovo album, “October road”, cinque anni dopo “Hourglass”, che nel 1997 gli aveva fatto vincere un Grammy nella categoria “Best pop vocal album”. Ci siamo fatti raccontare la genesi del nuovo disco, l'America post-11 settembre, ed altro ancora.


Mister Taylor, domanda inevitabile: dov’era l’11 settembre?
Ero in tour negli Stati Uniti con la band. Ricordo che nelle settimane successive viaggiare da una parte all’altra dell’America non era per niente facile, ma non dimenticherò mai il fatto che suonare in quei giorni ha aiutato molto la gente che ci ascoltava ed ha aiutato molto anche noi. E’ stato incredibilmente emozionante. Ccredo che il modo migliore di ricordare le vittime dell’11 settembre sia, per uno come me, far musica. E la musica dice più di qualsiasi cosa.

Parliamo d’altro. Perché ha aspettato cinque anni per dare un seguito ad “Hourglass?”
Perché ad uno come me piace far le cose per bene e anche perché ho avuto un piccolo incidente...

Si riferisce al fatto che le hanno rubato i nastri con le incisioni quasi pronte?
Sì. E’ accaduto a Parigi. Ho lasciato il registratore in un taxi e non l’ho più ritrovato. Per fortuna avevo trascritto quasi tutto su carta. Comunque questo furto alla fine mi è servito a rimettere le mani su qualche pezzo che non mi convinceva del tutto.

Qual è il segreto delle sue canzoni?
Mah! Diciamo che la mia musica può anche essere complessa ma è soprattutto semplice e familiare perché io lavoro sempre sullo stesso territorio compositivo. In sintesi posso dire che io adotto 12 moduli di canzone e spesso una è legata ad un’altra. Idem per i testi. In questo album, per esempio, “On the 4th of july” è unita a doppio filo con “My travelling star” dalla bossanova, mentre per le liriche la nuova “Carry me on my way” è legata a “Look up your life” di “Hourglass”. Insomma, temi musicali e storie nel mio caso spesso si rincorrono anche a distanza di anni.

Come compone?
Con l’ispirazione e il metodo. Spesso mi capita di essere fulminato da una buona idea, ma subito dopo devo mettermi a tavolino per riflettere e capire meglio di cosa si tratta.

Per questo album lei è tornato a lavorare con il produttore Russ Titelman, che aveva già collaborato a “Gorilla” del 1975 e “In the pocket” del 1976. Com’è andata?
Benissimo. Abbiamo immediatamente ritrovato la sintonia e per me è stato gratificante perché con lui ho realizzato i miei due album che preferisco.

“On the 4th of july” può far pensare ad una vera e propria canzone politica. E’ così?
No. Io scrivo soprattutto canzoni d’amore e questa parla di due innamorati che il 4 luglio guardano i fuochi d’artificio.

E “Belfast to London”?
Sì. Forse lo è. L’ho scritta nel 1997, o nel 1998, non ricordo. Mi trovavo in tour con il gruppo e arrivando in Lussemburgo dall’Irlanda vidi una situazione di guerra spaventosa. Mi venne in mente camminando in una foresta e il riferimento a Dio è naturale. Per parlare del mio rapporto con Dio, però, una canzone non basterebbe: ci vorrebbe molto di più.

Cosa ne pensa dell’attuale governo degli Stati Uniti?
Mi risulta davvero difficile parlare male del mio governo in un paese che non è il mio. Comunque posso soltanto dire che sono molto preoccupato per l’attuale situazione. Vorrei che i nostri politici fossero più responsabili riguardo a ciò che fanno e non solo per gli Stati Uniti. Per la situazione che riguarda I’Iraq, per esempio, vorrei saperne di più e capire meglio l’intera problematica. Detto ciò, io sono soltanto un cittadino americano, uno scrittore di canzoni e non un uomo politico. E non voglio esserlo.

In passato lei ha appoggiato il presidente democratico Jimmy Carter. Adesso da che parte sta?
Secondo gli standard americani sono sicuramente di sinistra. Di recente ho sostenuto la campagna elettorale di Al Gore e per lui e i democratici ho fatto parecchi spettacoli di beneficenza. Al momento spero in un equilibrio fra democratici e repubblicani per quanto riguarda i mezzi di comunicazione. E’ una questione molto importante.

Quando i Beatles le fecero incidere il suo album d’esordio per la loro Apple Records avrebbe mai immaginato che nel 2002 avrebbe fatto ancora musica?
Fui molto sorpreso dalla loro decisione di produrre il mio primo disco. Allora, nel lontanissimo 1968, la mia idea di futuro non riusciva ad andare al di là di una settimana. Figurarsi se potevo mai immaginare che un giorno del 2002 mi sarei trovato a parlare con un giornalista italiano di un mio nuovo disco...

Recentemente ha cantato alcune ballad per un disco del sassofonista jazz Michael Brecker. Si cimenterà mai con i classici jazz?
Sì. In passato ho fatto qualche esperimento in questo senso e credo che primo o poi farò un disco.

Cosa l’ha influenzata maggiormente?
Di tutto un po’. A me piace l’afro-music, il blues, la latino- americana, il country, la brasiliana etc. Però quando prendo una chitarra in mano e canto qualcosa mi piace credere che ho un mio stile.

Quali sono stati gli artisti che più hanno avuto un peso nella sua formazione?
Innanzitutto Ray Charles. Poi Woodie Guthrie, Bob Dylan, Beatles, Ry Cooder e Miles Davis.

Guardando il successo di artisti come Eminem cosa pensa?
Fermo restando che Eminem a me piace, credo che non si possano fare paragoni con il passato. Prima la musica aveva un significato diverso per la gente e quindi anche gli artisti erano di un’altra pasta. Tutto qui. A me piace ogni tipo di musica, comunque, non bisogna prendersi troppo sul serio e ognuno scelga ciò che vuole.

Lei e quelli della sua generazione, però, in qualche modo avete influenzato milioni di persone...
Non credo che sarà lo stesso per quelli di oggi. Ma va detto che io appartengo ad una generazione che pensava davvero di cambiare il mondo, noi ci sentivamo al centro esatto della storia e tutto ci sembrava importantissimo.

La responsabilizza sapere che ha influenzato tanta gente?
Sì. Ma non voglio avere un peso particolare per i nuovi artisti. Rispetto a ciò sono soltanto sicuro di quello che io devo alle persone che mi hanno in qualche modo formato. E basta.

Artisticamente oggi la situazione non è certo esaltante. La colpa è soltanto delle case discografiche?
La musica viene dai musicisti e non dalle major. Le case discografiche puntano sulle cose più facili così come è più facile produrre birra che vino. La grande industria tende a bruciare ogni cosa ma alla fine tutto è nelle mani degli artisti. Dipende da loro.

E’ vero che vicino a Boston, dove è nato, le hanno dedicato un ponte?
Sì. Ma si tratta di un cavalcavia...

(Andrea Scarpa)

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