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Mike Scott racconta 'Too close to heaven'...

”Too close to heaven” è stato uno dischi dell’anno appena trascorso, e non solo per la redazione di Rockol (che lo ha piazzato all’11° posto della sua classifica). Il disco basato sugli inediti delle sessioni del leggendario capolavoro folk-rock “Fisherman’s blues” (1989) ha dato nuova linfa al marchio Waterboys: Mike Scott, da sempre padre padrone della band, negli ultimi tempi non aveva fornito prove certo memorabili. Completando e ultimando i brani scritti tra il 1986 e il 1988 –il periodo più creativo della sua band- ha dimostrato sia quanto valevano allora i Waterboys, sia il fatto di essere ancora in grado di fare buona musica, anche oggi. E non è poco.
Dal sito ufficiale del gruppo, www.mikescottwaterboys, riportiamo quest’intervista: Scott racconta i retroscena del disco e ripercorre le tappe fondamentali dei Waterboys.


“Too close to heaven” è soltanto un piccolo segreto tra tutti quelli che costellano la storia dei Waterboys. Lo considerate come la prima rivelazione di una serie a venire?
Per quanto riguarda i brani tratti dalle session di “Fisherman’s blues”, questo album rimarrà un caso unico, a cui non ne seguiranno altri. Altre canzoni potrebbero saltar fuori in futuro ed essere inseriti in una sul modello di “Secret life”, il disco di inediti e rarità che pubblicammo qualche anno fa..

Parlando di questo album lo scorso anno hai detto che non avresti mai pubblicato una sorta di reperto archeologico da museo, ma avresti completato il tutto per rendere il lavoro attuale. E’ stato difficile superare il lato emotivo dell’operazione? Non hai mai sentito la necessità di pubblicare il disco senza ritocchi e lasciare che fosse la storia a giudicarlo?
No, ho semplicemente riascoltato i nastri e fatto ciò che mi sembrava più opportuno fare. Avevo a disposizione parecchio tempo, così me la sono presa comoda, una volta iniziato il lavoro. Non c’era modo, né la volontà, di pubblicare le tracce così com’erano. Alcune erano solo abbozzate, a volte mancava persino la parte vocale, e la maggior parte erano mix grezzi con il tipico suono degli anni ’80, con troppi riverberi e sbalzi di audio. Non vedevo l’ora di poter cambiare quelle cose! Altre canzoni invece avevano bisogno di essere rimixate per diventare delle tracce vere e proprie, specialmente quelle provenienti dai Fantasy Studios delle session di Bob Johnston. L’unico pezzo che non ho modificato per nulla è “The ladder”. Ho mantenuto il mix originale del giorno in cui l’abbiamo registrata.

Non hai pensato di fermare il progetto “Fisherman's blues” allo stadio di lavorazione di questi brani e pubblicare ciò che avevi a disposizione? Magari lasciare i brani registrati in seguito Spiddal, quelli poi pubblicati su “Fisherman's blues”, per un ulteriore album?
Non ho mai desiderato seriamente che qualcosa nella mia vita andasse diversamente. Nessun rimpianto, capisci? Ma immagino che grande doppio album avremmo potuto fare prima di andare a Spiddal e registrare quelle canzoni. Avrebbe avuto la stessa potenza ed influenza di “Fisherman’s blues”. Ma c’era troppo materiale e c’erano troppe opzioni che quella musica ci offriva perché la finissimo allora. Non avevo il controllo, a quel tempo, così pian piano gente come U2 e R.E.M. si è potuta far strada.

Sembra ci siano molte sonorità in comune tra “Too close to heaven” e “This is the sea”, il disco che i Waterboys pubblicarono nell’85. Cosa che invece non può essere detta per “Fisherman’s blues”. Eravate coscienti di questo particolare nel momento in cui lo stavate registrando? Sareste stati contenti di queste similitudini se “Too close to heaven” fosse stato realizzato a quel tempo?
Sono cosciente di questo particolare, ma a quel tempo non ci pensavo. Le similitudini sembrano essere l’uso del pianoforte e del sassofono, ma il metodo complessivo delle registrazioni utilizzato durante le session di “Fisherman’s blues” era totalmente diverso rispetto a quello dei primissimi album dei Waterboys. Quelle canzoni sono tutte eseguite dal vivo con molte parti lasciate all’improvvisazione, mentre i primi dischi nella mia testa erano strutturati per essere realizzati in studio.

Ti manca la naturalezza di quei giorni? Qual è stato l’aspetto più importante di quel periodo, per te?
Sì, certo che mi manca, chi non proverebbe lo stesso? E’ stato un periodo incredibile. Ero innamorato dell’Irlanda. Ogni giorno era una nuova avventura, era come vivere in una storia mitologica. Ci ritornano frammenti di ricordi adesso, visto che Steve Wickham è tornato nei Waterboys; musica sui tour bus, musica negli hotel… Ed è fantastico provare quello stesso spirito oggi. Far parte di un gruppo di musicisti affiatati è stato meraviglioso a quel tempo, con tutte le amicizie e conoscenze che abbiamo fatto con altri artisti in Irlanda. Provo ancora uguali sensazioni quando torno in Irlanda e magari incontro quelle stesse persone.

Pensi di aver osato fino alla fine con le sonorità di “This is the sea”?
Oh, il suono di “This is the sea” è stato realizzato e finito, questo è scontato. Sapevo bene dove ero arrivato. A quel tempo avevo già iniziato ad ascoltare musica country. Dove sarebbe potuta andare la nostra musica se non avessi incontrato Steve? Nessuno lo può sapere, ma di primo acchito ti direi che si sarebbe spostata verso il gospel, il blues e il country. Avremmo anche registrato in presa diretta in studio, anche senza il tocco magico di Wickham.

“Too close to heaven” suona proprio come dicevi tu, come un disco fatto da una band da te descritta come “improvvisazione, esibizione, personalità, catturare dei momenti”. Trovi questo modo di lavorare una grande libertà?
Sì, ci dava grande libertà. Avere a disposizione un gruppo che può improvvisare in studio e ottenere dei risultati, è semplicemente fantastico. Poche band ci riescono, non ne ho avuta una così da allora; vedremo se gli attuali Waterboys sapranno fare lo stesso. L’enorme sintonia e caratura del gruppo nel 1986-87 mi hanno permesso di scrivere le canzoni molto facilmente e velocemente. Era come aprire un passaggio verso la terra delle canzoni. “Fisherman’s blues”, “Strange boat” e innumerevoli altre erano fatte di questo. “Tenderfootin” era una tra le tante canzoni che sono state scritte e registrate contemporaneamente dal nulla. Altre di questo tipo includevano “Saints and angels”, ma sfortunatamente quest’ultima non è stata registrata su un 24 traccia, ma soltanto in stereo; così non ho potuto ritornarci su e ricantare il primo verso del testo, quello appena abbozzato. Ecco perché questo brano non si trova sul nuovo album.

Quanto è stato importante il produttore Bob Johnston su entrambi il suono e il vostro modo di lavorare?
Avevamo già trovato il nostro suono e la direzione in cui volevamo andare prima che Johnston arrivasse, anche se ci ha aiutato a consolidare il nostro modo di fare musica. Per noi era un’aspirazione lavorare con una persona che avesse prodotto così tanti e importanti nomi nel mondo della musica. Lui ci ha dato una buona dose di dritte sulla musica country. Ho suonato il vecchio pianoforte di Hank Williams e imparato canzoni come “Lost highway” e “Will the circle be unbroken” a casa di Bob. Bob non tentava di indirizzare le canzoni verso una sua direzione, non era il tipo di produttore che lavora in questo modo. Lasciava le canzoni e le musiche a noi. Però ha anche trovato un suo particolare suono mentre era al mixer creando una certa atmosfera in studio quando poteva essere creativo.

E’ stato un periodo certamente delirante, dato che avete lavorato a ben sette sessioni di registrazioni nel 1986. Avete mai pensato di registrare ancora così tanto materiale in poco tempo?
Ci piaceva. Ho sempre amato registrare canzoni così velocemente dopo che erano state scritte, perché in quel modo l’evoluzione della musica era più immediato. Se provassi ad ascoltare le session del 1986 in ordine cronologico sentiresti che la costruzione dei suoni aumenta sessione dopo sessione, portando il suono agli estremi, arrivando ad una maturazione sempre più esaustiva.

Si è sempre pensato che i Waterboys fossero molto ambiziosi. Siete rimasti uno dei pochi gruppi che continua a sposare quell’ambizione con l’abilità reale di poterla realizzare. Quanto sono stati importanti Steve e gli altri ragazzi nel raggiungimento di quei propositi nel periodo tra il 1986 e il 1988?
Come ho già detto prima, è stato fantastico avere un gruppo che potesse suonare e creare dal vivo con una sintonia così alta. Niente potrà superare l’empatia di quei momenti. E’ pura e viva, e la adoro. Era la combinazione musicale con Steve, Anto e Trevor che l’ha resa possibile. Senza dimenticare i numerosi batteristi. Peter McKinney che ha suonato in “Fisherman’s blues” e “Custer’s blues” è un grande improvvisatore alla batteria, molto musicale. Anche Kevin Wilkinson. Lui è stato uno tra i più bravi a capire lo spirito dei Waterboys quando lavorava con me e Anthony negli anni passati. Un altro è stato Noel Bridgeman, che era tecnicamente molto in gamba quando ci serviva un lavoro di quel tipo nelle session in studio. Noel riusciva ad adattarsi ad una canzone immediatamente e sviluppare un arrangiamento della stessa alla prima prova.

Facevate anche molte cover. C’era qualche criterio particolare che utilizzavate per selezionarle?
No, suonavamo semplicemente ciò che ci piaceva. Imparavo un brano da un disco oppure ad un concerto di qualcuno e pochi giorni o settimane dopo saltava fuori mentre eravamo in studio. Avevamo un repertorio di canzoni nostre o di altri che suonavamo ovunque e in ogni occasione.

Pensi mai di ritornare al gospel e al country, a quegli stili che tanto hanno avuto influenza nel tuo lavoro verso la fine degli anni ’80?
L’ho già fatto! Il gospel è stato un elemento importantissimo per le basi di “A rock in the weary land”. Per quanto riguarda il country, chi lo sa? Magari prima o poi ci ritornerò. Continuo ad ascoltare e far ascoltare la bellezza della musica di Hank Williams ai nuovi Waterboys.

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