
Come è cambiato il tuo modo di scrivere nel corso del tempo?
Ho iniziato a scrivere canzoni quando avevo 13 anni: fu allora che decisi che volevo diventare un cantante rock. Non sapevo di avere talento, né comprendevo il dono che avevo ricevuto. Mi sono detto “sei un artista”, non necessariamente un “buon artista”, finché non ho avuto quarant’anni. Al tempo del primo singolo avevo quindici anni. Non era un granché, una imitazione degli Everly brothers, ma fu un successo. Ho scritto “The sound of silence” che avevo 21 anni, e non l’avrei mai composta se non fosse stato per Bob Dylan. Poco dopo mi sono detto che non mi sarei mai più avvicinato a Bob Dylan: lo ammiravo, ma volevo essere me stesso. Nel periodo in cui ho esordito con Simon & Garfunkel, era difficile trovare spazio tra Dylan, Beatles e Rolling Stones. Comunque, le cose che ho scritto dopo, come “Bridge over troubled water”, “Mrs. Robinson”, “Cecilia”, erano uniche, non assomigliavano a null’altro. “Bridge over troubled water” l’ho scritta in una notte, chiedendomi poi da dove arrivasse... Davvero, era un dono, ma all’epoca non me ne rendevo conto, avevo solo 27 anni.
Invece ora…
Nell’ultimo disco ho scritto ogni canzone in due-tre giorni ciascuna, alcune addirittura in un pomeriggio, con mio grande stupore. In ogni attività ci sono fasi di passaggio, provi diverse soluzioni, fallisci ed hai dei successi. Il viaggio in Africa mi ha cambiato, facendomi scoprire il ritmo. Questo ha portato a “Graceland”, che è stato un altro dono. Il tempo passa e le parole sono sempre lì; si chiarisce semmai il processo di selezione, capisci soprattutto quello che non ci dovrebbe essere. La vita diventa sempre più preziosa: ora mi ritrovo in un momento emotivo fantastico, con la nascita dei miei figli. Lavorando in diversi idiomi, ho capito che tutto è nato da una mia ossessione per i suoni, che ho fin da piccolo. Forse allora non me rendevo conto, ma adesso ho ricordi precisi della mia infanzia sonora. E' come per un pittore aggiungere sempre nuovi colori alla tua tavolozza.
Quanto ha contribuito Art Garfunkel alla composizione dei brani di Simon & Garfunkel?
Non molto. Forse non è giusto metterla così. Non era uno scrittore, ma è stato il mio più grande amico, il mio socio e il mio più grande incoraggiatore. E ha dato voce alla mia canzone migliore del mio primo periodo. In questo senso ha fatto parte della mia musica, anche se non direttamente del mio processo creativo.
C’è o ci sarà mai la possibilità di una vostra riunione?
Quale sarebbe il motivo per farlo, se non la nostalgia o i soldi? Non c’è una ragione musicale che mi spinga a farlo. Ho scritto per me stesso dai primi anni ‘70. Simon & Garfunkel è stata una piccola parte della mia carriera. E’ come quando mi si dice che provengo dal folk: ma il mio interesse per quel genere è durato molto poco…
Cosa pensi della musica di oggi? C’è qualcosa che ti interessa?
Non ho un atteggiamento negativo, ma per la maggior parte non conosco la musica contemporanea. Ho appena sentito il disco dei Radiohead e mi è piaciuto molto. Ho provato anche ad ascoltare del rap. Vedi, mi interessa molto cercare di capire quanto può durare l’attenzione prestata alla musica. Quando la tecnologia ha fatto fare il salto dal vinile al CD, si è passato da 22 minuti di attenzione, la durata di un lato, ad un periodo molto più lungo di ascolto. E questo era molto naturale per la mia generazione, che pensava i dischi su queste lunghezze. Così ho deciso che il mio nuovo disco non sarebbe stato più lungo di 45 minuti, perché questa è la mia capacità di concentrazione della musica. Ciò mi ha reso curioso nei confronti del rap: ha un atteggiamento molto diverso nell’affrontare la capacità di concentrazione dell’ascoltatore, con suoni che vanno e vengono, tessuti sonori diversi. La stessa cosa succede con la musica cosiddetta “trance”. So che il mio nuovo disco ha una forte componente ipnotica e volevo capire cosa c’era di ipnotico nella musica trance. Così ho controllato, senza in realtà trovarci nulla di particolarmente utile per me. Ma non ho un’idea negativa della musica contemporanea: è il suono di una generazione, ognuna ne ha una.
Pensi che la rivoluzione digitale della musica cambierà i processi di concentrazione sulla musica?
E’ la stessa questione, da un punto di vista diverso. Ognuno si crea il proprio periodo di attenzione, prelevando la musica da dove ritiene opportuno, scaricando qua e la. Il mio compito è quello di fare un disco che catturi l’ascoltatore dall’inizio alla fine. Questo è il mio sistema di valori, quello dei musicisti cresciuti negli anni ’60.
I concerti, però, catturano l’attenzione per molto più tempo…
Si, ma nei concerti è diverso, perché si balla, si canta, si è in mezzo alla gente. E’ diverso dall’ascoltare in cuffia o guidando. Ci sono artisti che si esibiscono per quattro ore, ma non fa per me. Due ore, due ore e un quarto: questa è la mia dimensione. Una piece di Robert Wilson e Philip Glass può durare sette ore. Non ci sono regole, l’importante è capire cosa si vuole comunicare al proprio pubblico.
Qual è il tuo atteggiamento nei confronti del pubblico? Cosa vuoi comunicargli?
Per me il pubblico è un valore estetico. Devo offrirgli qualcosa. Non sarei andato in tour se non avessi avuto canzoni nuove. Ne ho suonate anche di vecchie, ma senza eccedere nella nostalgia. Ho fatto “Homeward bound”, “The boxer”, “I am a rock” che non facevo da anni. Ma non ho fatto “The sound of silence” o “Mrs Robinson”. Ma alcune delle canzoni vecchie acquistano una nuova forza. Ho scritto “Old friends” che ero un ragazzino. Che ne sapevo allora che volesse dire essere anziano? Ora lo capisco molto meglio. Anche solo in poco tempo le canzoni cambiano. Questo di Milano era solo l’ottavo concerto, e vi assicuro che è molto migliorato dal primo, ma meglio che non lo diciate in Svezia, dove ho iniziato il tour…”
(Gianni Sibilla) |