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Polly Jean è tornata sulla terra, con uno dei dischi più belli dell'anno...

Ad una prima occhiata, l’impressione è che compiuti i 30 anni, la cantante inglese sia tornata sulla terra. Il personaggio difficile da interpretare, che appariva nei video in mutande oppure si proponeva in concerto truccatissima e con abiti rosa terribilmente glamour, ha l’aria di aver “scremato” molte cose, e non solo dal suo look – nero, sobrio, con ampio “scollo” sul seno che fa molto “dark lady”. Di fatto, Polly Jean non è più la strana ragazza di campagna dei primi dischi: per incidere “Stories from the city, stories from the sea”, PJ ha sciacquato i panni nell’inquinatissimo Hudson…

Leggendo i testi delle nuove canzoni, si direbbe che hai voluto fare un disco volutamente newyorchese. Citi spesso luoghi e quartieri di New York.
Sono uno spirito inquieto e mi piace vivere in posti diversi. Ho vissuto là per sei mesi, e sentivo che era un buon posto per scrivere. Lo definirei un processo di assorbimento dell’energia del posto. Mi arrivava molta energia ed ispirazione, e mi sentivo pronta per un certo tipo di canzoni, anche se poi non sarebbe esatto dire che è un disco completamente scritto a New York…Anche perché scrivo canzoni continuamente. Alcuni pezzi sono stati scritti a Londra e Bristol. Alcuni, in campagna: tra questi, uno dei più aggressivi, come “The whores hustle and the hustle whores”, che potrebbe sembrare molto urbana.

A quale “certo tipo di canzoni” ti riferisci?
Volevo scrivere canzoni semplici e forti. Melodie forti, parole forti. Nei dischi precedenti ho lavorato molto in studio per creare suoni, puntavo sull’atmosfera, prima ancora che sulla musica in quanto tale. Ora credo di aver privilegiato le canzoni che risultano più forti anche se suonate solo con una chitarra. Mentre in passato ho scritto cose come “Catherine” che era impossibile eseguire accompagnandosi con la chitarra e nient’altro, a causa del…non so come dire…il tappeto sonoro che stava sotto, il paesaggio sonoro…che per me era molto importante. Molte delle mie canzoni sono ispirate da film e dipinti. Una delle mie principali fonti di ispirazione è stato Marc Chagall: mi piace come lascia fluttuare le cose nei suoi dipinti, e in qualche occasione ho cercato di riprodurre con la musica quel tipo di approccio.

Come mai hai sentito l’esigenza di un cambiamento?
Per ognuno dei miei dischi ho cercato un approccio diverso. Da qualche tempo, poi, sentivo che come autrice di canzoni mi stavo indebolendo. Ho cercato di concentrarmi sul songwriting… Ho avuto come punti di riferimento Neil Young e Bob Dylan. Ovviamente nemmeno Bob Dylan, che pure trovo un artista incredibile, capace di togliere il fiato, ha scritto sempre cose tali da scuotere chi lo ascoltava, ma con “Time out of mind” ha ritrovato quel tipo di ispirazione che aveva ad esempio in “Desire” o “Blood on the tracks”. E’ sicuramente un artista che esplora nuovi territori nella struttura della canzone… Qualche volta funziona, qualche volta no.

Ai critici comunque era piaciuto molto “Is this desire?”, non avevano percepito l’indebolimento di cui parli…
Non tengo in gran conto le opinioni dei critici. Cerco di capire da sola in che direzione andare, e vado avanti finché non trovo il modo di esprimere adeguatamente ciò che sento. A me interessa che un pezzo sia la migliore forma di espressione possibile. E’ quello che mi piacerebbe fare anche con le altre forme d’arte, con la scultura o la recitazione… Ma la musica rimane l’ambito cui penso di appartenere maggiormente. Specialmente per quanto riguarda la performance dal vivo. Quello dà senso a tutto. Fare canzoni, eseguirle, fare video… Le possibilità di espressione offerte a chi scrive canzoni sono notevoli.

In un’intervista hai detto di aver preso atto che i gusti dei ragazzi di oggi sono molto diversi di quelli che ti ascoltavano quando hai debuttato, una decina di anni fa. Pensi che oggi avrai difficoltà ad essere ascoltata?
Non penso a questo tipo di cose. Se tenessi conto di come la gente mi percepisce, sarei bloccata. Sarei paralizzata dalla paura. Il motivo per cui scrivo canzoni è semplicemente perché lo trovo il modo migliore di dire alle altre persone cose che valgano la pena. Finché mi riuscirà, lo farò. E non so cosa farò tra un paio d’anni, non si può mai dire. La mia osservazione era semplicemente di tipo musicale. Oggi va per la maggiore un certo tipo di musica. Ne prendo atto, ma vado per la mia strada.

Il titolo dell’album parla di storie dalla città e storie del mare. Le prime saltano agli occhi, le seconde sono molto meno evidenti…
Il mare è il subconscio. Ho vissuto in posti diversi, ma sono cresciuta con il mare vicino. E’ stato una parte importante del mio immaginario. La terraferma rappresenta la parte cosciente, il mare quella subcosciente. Allo stesso modo scrivere canzoni richiede di combinare immaginazione e realtà. La fantasia e le cose che ti capitano realmente.

In “Is this desire?” avevi usato dei personaggi come protagonisti delle canzoni, parlando di loro in terza persona. Qui usi soprattutto la prima persona, le canzoni cominciano spesso con la parola “Io”…
E’ vero ma non direi che per questo sono canzoni più o meno personali. Forse, come autrice, voglio semplicemente esplorare. In “Is this desire?” parlavo molto in terza persona perché non lo avevo mai fatto. In “Is this desire?” mi sono concentrata su certi piccoli momenti che durano pochi secondi e poi se ne vanno ma abbastanza potenti da cambiare la tua vita. E’ la stessa natura delle canzoni: sono scritte per essere suonate. Ma dopo pochi minuti sono andate… Ma non è per la forma in cui sono state scritte che non sono canzoni personali. Nel nuovo disco probabilmente ci sono alcune immagini che sono più significative se descritte in prima persona.

Il disco è il lavoro di tre persone, più un ospite, Thom Yorke. Come mai hai pensato a lui?
Io e Thom ci conosciamo, e direi che anche dal punto di vista artistico non ci troviamo in sfere separate. Thom mi ha fatto sentire “Kid A” in macchina. Credo che voglia sfidare quello che ha già fatto, cimentarsi con cose nuove, ed io ho molto rispetto di chi vuole cambiare. Quanto a “This mess we’re in”, l’ho scritta anni fa, nel 1998, prima che uscisse “Is this desire?”, sperando che la cantasse con me. Ha una voce incredibile, capace di ispirare molte cose. Penso che fosse contento di usare la sua voce in modo diverso da come aveva fatto fino a ieri. E per me è stato molto eccitante a metà disco sentire la sua voce, perché ogni tanto mi stanco del suono della mia.

Vista l’importanza del cambiamento nella tua musica, come ti poni rispetto a canzoni scritte anche tempo fa?
Credo che se la canzone ha una sua forza, possa resistere al tempo. Ma penso anche che oggi le mie canzoni siano migliori. Sono più sagge.

Lo sei anche tu?
Sì, direi di sì! Non vedo l’ora di diventare vecchia e sapere più cose. Ora sto meglio con me stessa. E’ brutto naturalmente quando dopo i 60 anni cominci a perdere gradualmente quello che sai. Ma penso che 30 anni sia una bella età. Quando ero più giovane pensavo che 30 anni fossero l’anticamera della tomba… Poi, mi sono resa conto che non è così. Come tutti quelli che compiono 30 anni, immagino…
(Paolo Madeddu)

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