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Il ritorno dal vivo, il nuovo disco, nella prima parte dell'intervista di Rockol...

Voce pacata, cappellino calato sulla testa. Paul Simon scandisce le parole lentamente, come se stesse recitando. E’ un’occasione più unica che rara incontrare questa icona della musica americana, attivo sulla scena musicale da quasi quarant'anni. In questa lunga chiacchierata con Rockol, Simon si racconta a viso aperto, parlando del suo ritorno sulle scene, del nuovo disco “You’re the one”… Ecco la prima parte dell’intervista, la seconda verrà pubblicata lunedì 6 novembre.

Partiamo dal concerto del Palavobis, il tuo primo in Italia dopo lungo tempo…
E’ stato bello: mi sono sorpreso e sono stato onorato dal fatto che così tante presone sapessero a memoria le parole, anche quelle più recenti delle canzoni più recenti.Mi fa piacere che il pubblico colga l'aspetto emozionale della performance, alzandosi in piedi e iniziando a cantare. Rende il concerto autentico.

Sei ritornato sul palco l’anno scorso dopo lungo tempo. Come mai questa assenza?
La scorsa estate ho fatto il mio primo tour dopo 8 anni, con Bob Dylan. Il motivo per cui mi sono fermato è perché a un certo punto mi sono reso conto che non sapevo più quello che stavo facendo, né sapevo se il pubblico lo sapesse. Ero la caricatura di me stesso, mi stavo imitando. Mi sono detto: non voglio essere un intrattenitore, sono un musicista. La musica è vera se è espressione dell’anima.

Quali sono i tuoi rapporti con Bob Dylan?
E’ un buon amico. Il tour assieme è stato una cosa molto piacevole. Abbiamo cantato insieme “The Boxer”, “Sound of silence”, “Knockin' on heaven’s door” e “Forever young”, più qualcosa di Buddy Holly, scambiandoci spesso le rispettive band e provando arrangiamenti diversi. Chi può dirlo se suoneremo ancora assieme? Non abbiamo progetti al momento, credo che tornerò dal vivo con questo gruppo la prossima estate, ma con Dylan mi sono divertito molto, per cui non escludo nulla.

Cosa ti ha spinto a tornare ad esibirti?
E’ stato il caso. Un mio amico mi ha chiesto di partecipare ad un concerto di beneficenza che stava organizzando. E’ successo tre o quattro settimane dopo la chiusura di “The capeman”. Sapeva che non era un bel periodo per me, ma aveva qualche difficoltà. Così gli ho detto che se davvero aveva bisogno, gli avrei dato un mano, nonostante tutto. Alla fine ho partecipato e lui ha ottenuto il sì anche di Stevie Wonder e Don Henley. Sono andato a Los Angeles, ho cantato tre o quattro canzoni con la Band di Don Henley, con in testa l’idea di suonare innanzittutto per me stesso. E ho suonato come se fossi da solo. E’ successa una cosa strana: sono rientrato in contatto con il pubblico, senza aspettarmelo. Così un anno dopo, quando mi hanno proposto il tour con Dylan, ero molto più disposto a farlo. Dylan mi ha fatto notare che era un problema di divertirsi, di essere in pace con me stesso. Dylan ama quello che fa, forse può sembrare un po’ distaccato, ma è solo un'impressione data dal suo comportamento esteriore.

A proposito di “The capeman”, cosa pensi oggi del fallimento del progetto di quel musical?
Non è stato un vero e proprio fallimento. L’arte genera reazioni opposte, questo è il suo fine. “The capeman” era una buona opera, interessante, con un grande cast, ma è stata giudicata priva di valore. Questo non è vero. Forse non era adatto a Broadway, forse ci sono stati degli errori che non rifarei nella gestione. Ci sono già delle compagnie che vogliono portarla in giro per l’America e persino tra i critici di New York c’è un ondata di revisionismo, c’è chi dice che è stata un’occasione mancata. Era certamente una storia controversa, che parlava di redenzione, e con un’interessante unione tra musica latina e doo-woop. Non so se scriverò ancora qualcosa del genere e certamente non per rifarmi dei critici di New York, con cui non sono in polemica. Certamente è stata una delusione, perché ci ho lavorato per anni, e ci ho investito molti soldi. Mi sono detto che la lezione che ho imparato è ciò che ho ottenuto dall’investirci così tanto tempo e denaro.

In “Pigs, sheeps and wolves”, dal tuo nuovo disco “You’re the one”, emerge di nuovo il tema della pena di morte, come già in The Capeman…
E’ una coincidenza, tratto aspetti diversi dello stesso tema, ma non ne sono ossessionato. Cosa ne penso della questione? Entrambi i candidati alle elezioni americane sono favorevoli, ma io credo che il vero punto sia un altro. Ovvero, cosa sia più utile per lenire il dolore della società, e sinceramente non so rispondere. Se l’applicazione della legge biblica occhio per occhio è la cosa più funzionale, allora sia così. Ma se c’è un modo diverso per far qualcosa di utile alla società, allora è giusto non uccidere e far sapere alla società che questo è meglio. Ma non ci sono prove che le società che applicano la pena di morte abbiano un tasso minore di omicidio. La pena di morte non è comunque un deterrente.

Torniamo a “You’re the one”. Alcune canzoni, come quella appena citata, sembrano delle filastrocche: quanto il disco è stato influenzato dai bambini che hai avuto in questo periodo?
Non so dirtelo. Forse inconsciamente nel modo in cui lavoro. Lavoro sui suoni e sui ritmi, partendo da un tappeto sonoro. Creo un’idea sonora o ritmica e la sviluppo per quattro o cinque minuti. Poi trovo la chiave melodica, può essere un do o un si bemolle e così via. Poi scrivo una parte di chitarra nella stessa chiave, e questo mi chiarisce le idee sullo sviluppo della canzone. A questo punto lascio sedimentare il tutto e aspetto che ne venga fuori una melodia. Adotto questo sistema con tre o quattro canzoni contemporaneamente, così da cercare dei collegamenti tra i vari brani, di modo da far emergere una linea concettuale dell’album. In questo procedimento i suoni senza senso che compongono la melodia diventano parole, che di solito prendo da un quaderno di appunti.

Hai adottato questo procedimento anche con “Darling Lorraine”, la canzone centrale del disco?
E’ stata la prima che ho scritto. Sono partito dal giro di chitarra, e la prima frase, “The first time I saw her”, ne ricalca esattamente la melodia. Le frasi successive arrivano dal quaderno di appunti, cercando di sviluppare una rima. Ci sono delle ripetizioni e variazioni, che seguono un tema. E’ come la creazione di qualsiasi forma artistica: si basa su temi e variazioni, bisogna controllare l’intuizione secondo uno schema preciso. Ecco perché scrivo a partire dalla chitarra. Ma è tutto molto inconscio: ha a che fare con i suoni e i ritmi che vogliono venire fuori. Per tornare alla domanda precedente, sicuramente il fatto di avere dei figli mi può influenzare. “Look at that”, per esempio nasce dal fatto che accompagno i miei figli a scuola ogni mattina, e magari mostro loro qualcosa. Ma non parto mai dal voler scrivere qualcosa in modo cosciente.

La seconda parte dell'intervista di Rockol a Paul Simon verrà pubblicata il 6 novembre.
(Gianni Sibilla)

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