
Cosa spinge un artista a pubblicare una retrospettiva?
Da ragazza non avevo molti soldi, ma quelli che avevo li spendevo in libri e dischi; non compravo certo vestiti. Facevo la telefonista, e nella pausa pranzo andavo spesso al negozio di dischi. Mi piacevano i "Best of..." perché mi permettevano di conoscere con un artista senza correre il rischio di beccare un disco strano o sperimentale. I pochi dischi che riuscivo a comprare era molto importanti per me, e con le antologie sapevo di non sbagliare. "Tried and True" è la retrospettiva su tutto quello che ho fatto fino a ora, cinque album in tredici anni, ed è la somma di quello che il pubblico ama e conosce meglio.
Quale strada traccia, questa retrospettiva, dal primo album - "Suzanne Vega" - all’ultimo "Nine objects of desire"?
Un percorso interessante: quando ho cominciato a suonare in pubblico a New York, la gente diceva: ecco una ragazza che viene dal Greenwich Village con la sua chitarra acustica: deve essere una nuova cantante folk. Era vero solo in parte; io in realtà sono una songwriter, e utilizzo stili musicali diversi, non solo il folk. Per questo "Tried and true" contiene "Blood makes noise", una canzone piena di distorsioni ed effetti, molto lontana da un brano folk; o anche "Tom’s diner" nella versione remixata da DNA, che secondo alcuni era una violazione della purezza dell’originale, mentre per me è solo una buona interpretazione. Le ultime canzoni del’album sono invece acustiche, e così chiudono il cerchio.
Ti senti più una cantante o una scrittrice?
Amo il linguaggio e le poesie. Per me, scrivere le parole di una canzone rappresenta l’ottanta per cento del lavoro. Uso la musica come veicolo per esprimermi perché amo le canzoni, ma non credo di essere una buona musicista o una grande cantante. La mia forza sta nelle parole, ed è bene che chi mi ascolta lo sappia in anticipo, per non rimanere sorpreso. Sono un’artista che osserva e racconta storie.
È stato detto che il tuo primo album, "Suzanne Vega", conteneva immagini e suoni così essenziali da raggiungere l’ anoressia..
In effetti quelle canzoni hanno l’estetica del "ridotto all’osso". In quel periodo della mia vita provavo delle cose che potevano corrispondere a quel tipo di immaginario. Alcune delle canzoni di "Nine objects of desire" erano nate dieci anni prima, ma io non me la sono mai sentita di cantarle in pubblico. Quando sono rimasta incinta di mia figlia, invece, la mia vita e la mia persona sono fiorite; ho trovato nuova gioia nel mio corpo e questo mi ha permesso di scrivere meglio dei suoi desideri. Credo che la vita segua dei corsi e ricorsi, e quindi ora mi sento pronta a ritornare ad una estetica più essenziale.
I due estremi di questo cambiamento potrebbero essere "Undertow" - da "Suzanne Vega" - e "Caramel" da "Nine Objects of desire"...
Al contrario, quei due pezzi sono molto simili. Il primo esprime il rifiuto, ma anche la fame di qualcosa che non hai, mentre "Caramel" è la voglia di qualcosa che non hai il diritto di avere. Questa è una idea ricorrente nelle mie canzoni: il desiderio di raggiungere qualche cosa che non è alla tua portata.
Altri brani di questa raccolta vengono da "99 degrees Farenheit", che era stato un album di rottura...
"99 degrees Farenheit" era una sfida. Mi ero stufata dei toni introspettivi e sognanti dell’album precedente, "Days of open hand". Sentivo il desiderio di qualcosa di nuovo, volevo affrontare il pubblico e lanciargli delle sfide. In canzoni come "Blood makes noise" volevo mostrare che la mia musica poteva anche essere violenta e che io non ero solo una Miss Thoughtful ("Signora Pensierosa", Ndr), come venivo descritta. Piano piano l’album è piaciuto anche i fans che preferivano i classici più rassicuranti come "Luka". Ha venduto costantemente nel tempo, e l’anno scorso ha raggiunto il disco d’oro negli Stati Uniti.
"Luka" non è solo una canzone di successo, ma anche la storia di un problema molto grave e doloroso, la violenza sui bambini. Ti interessa l’impegno sociale?
Non credo che un artista abbia il dovere di dire la sua solo perché è famoso. La maggior parte dei musicisti non sanno niente neanche delle cause di cui si occupano. Se a me capita di dire qualcosa su un problema, non lo faccio perché sono una celebrità, ma perché sono una cittadina. Quando scrivo, parto sempre da un punto di vista individuale: nel caso di "Luka", cercavo di capire come potevo raccontare una storia in maniera autentica, non un principio astratto. Non mi aspettavo che la gente avesse voglia di ascoltare una storia come quella di Luka. Poche persone se la sentono di affrontare il dolore di un bambino che viene picchiato. Sono rimasta veramente sorpresa quando la canzone è stata adottata dai media e dal pubblico per rappresentare un problema: per me era solo la storia di una persona.
Come scopri le storie che racconti nelle tue canzoni?
È sufficiente ascoltare e osservare le strade di New York. Ho vissuto per più di dieci anni vicino al fiume, in un posto isolato, senza vicinato. Ora invece mi sono trasferita in un quartiere molto più popolato, e ho il mondo alla mia porta, che mi piaccia o no. Dalle mie finestre vedo ragazzine che si siedono sul marciapiede e chiacchierano fumando sigarette, e mi metto ad ascoltarle. C’è un vecchio marinaio in pensione che si siede sulla mia porta. Quando porto la bambina a scuola, sento la musica che viene dai negozi e dalle radio. Tutti questi suoni e quei volti nutrono la mia immaginazione.
Proprio come la protagonista/narratrice di Tom’s Diner, che è seduta in un caffè e osserva quelli che passano in totale solitudine...
Mi sento molto isolata anche in mezzo alla folla, in un bar o sopra un autobus. Quando sono sul palco non vedo la folla, ma tante persone che sono uscite di casa per stare assieme per un pò di tempo. Scrivere è la mia maniera di comunicare, e se riesco ad aprire una connessione per me è un grande successo, perché è difficile parlare con una persona alla volta.
Abbiamo scoperto chi è il fantasma di "Solitude Standing"...
Ho sempre sentito quella presenza vicino a me. In un mio libro che sta per uscire in America c’è una poesia si intitola "By Myself" ("da sola", Ndr); l’ho scritta quando avevo nove anni e venti anni dopo ho fatto "Solitude Standing", che aveva la stessa idea, immagini differenti ma la stessa visione. La solitudine è da sempre con me, ed è lei che mi spinge a fare quello che faccio. È come una persona che soffre di vertigini e impara a lanciarsi col paracadute. Affrontare il pubblico di un concerto è la mia peggiore paura, ma anche quello che mi da le emozioni più forti.