E' un disco d'altri tempi, "Sleep no more". Per diversi motivi: la copertina, con quella grafica vecchio stile, con la tracklist scritta sotto il nome dell'artista, come in certi album jazz, tipo quelli della Blue Note. E' stato presentato come un concept album, definizione che oggi è decisamente fuori moda, anzi, può spaventare in tempi di consumo della musica canzone per canzone e in playlist. E arriva a poco più di un anno da "Written in scars", uscito nel 2015.
Oggi la vita media di un album è almeno due anni, ma se andate a vedere cosa succedeva negli anni '60 o '70, andava così: gli artisti non si fermavano mai, incidevano anche due dischi all'anno. "Written in scars" ha segnato un punto di arrivo importante per Savoretti, emerso nel mainstream tanto nella natìa Inghilterra quanto da noi, dove ha passato buona parte dell'ultimo anno e mezzo. Il successo gli è servito da motivazione, e il risultato è questo album.
Il cantautore italo-inglese dice che è un concept (lo dice con timore, in realtà: leggete la nostra intervista), un racconto della ricerca di una terza via tra l'amore appassionato e l'amore adulto e responsabile. Un album dedicato alla moglie, che parte dal rimpianto della passione di "When we were lovers" e arriva alla consapevolezza di "Start living in the moment" e di "Lullaby loving". Lo si può leggere così, o semplicemente come una bella e varia collezione di canzoni.
Il pregio maggiore di "Sleep no more" (e di Savoretti in generale) è quello di trovare un ottimo e difficilissimo equilibrio fra piacevolezza e credibilità. Fa una musica accessibile, ma senza mai scadere nella melensaggine di certo cantautorato pop (alla James Blunt, per intenderci). E allo stesso tempo ha le caratteristiche anche per piacere agli appassionati del cantautorato rock più tradizionale: ha una voce graffiante, una bella scrittura, e arrangiamenti che vanno dal pop-rock vintage di "Any other way", ai suoni più moderni (quasi U2) di "Start living in the moment" ed "Helpless, all'uso degli archi in "Lullaby loving" e "I'm yours", una ballata che, in altri tempi appunto, sarebbe volata in testa alle classifiche.
Insomma, un bel disco: nonostante le origini, suona più americano che inglese. E soprattutto suona bene.
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