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«HOUSES OF THE HOLY - Led Zeppelin» la recensione di Rockol

Led Zeppelin, il quinto album (ma come fosse il primo)

I 50 anni di "Houses of the Holy"

Recensione del 28 mar 2023 a cura di Giampiero Di Carlo

Voto 8/10

La recensione

Per tutti noi fa parte dell’élite del classic rock e rappresenta la quintessenza del catalogo di pregio. Però, dai fans della band e dalla critica che ne vissero il momento della pubblicazione, all’epoca emerse un giudizio polarizzato su un disco che vedeva la luce circa un anno dopo essere stato registrato, ossia in quel 1972 in cui…

L’élite

… in quel 1972 in cui, fatti definitivamente i conti con l’assenza dei Beatles dalla scena e dalle classifiche, il Pantheon del rock era occupato da quattro entità semi-divine: Rolling Stones, Pink Floyd, Led Zeppelin e Who. “Houses of the Holy” è imparentato con i primi perché buona parte della sua registrazione avvenne nel maniero di Mick Jagger; lambisce i secondi per la storia della sua copertina; mentre prende le distanze dall’ortodossia hard rock dei terzi, proprio come fa rispetto al suo stesso DNA blues. 
In ogni caso, nel 1972, i Led Zeppelin erano la più grande band del mondo, forte dell’incredibile tetralogia composta da quattro eccezionali album usciti in soli 3 anni e (non) intitolati da I a IV.

Making of

La registrazione di “Houses of the Holy” era stata ultimata nella primavera dell’anno prima a Stargroves, una magione di campagna di proprietà di Mick Jagger sita nell’Hampshire, a East Woodhay, che il gruppo aveva abitato mentre finalizzava la maggior parte delle sessioni (l’album contiene anche incisioni realizzate a Headley Grange con lo studio mobile dei Rolling Stones, agli Olympic Studios di Londra e agli Electric Lady Studios di New York). Come sempre in cabina di produzione sedeva Jimmy Page; stavolta era nuovamente affiancato da Eddie Kramer, ingegnere del suono e addetto al mixaggio, con il quale aveva ristabilito rapporti civili dopo un vecchio litigio.
La ragione del ritardo della pubblicazione di un anno? La copertina.

La copertina

Il concetto e la grafica della copertina furono opera della Hipgnosis, la cui reputazione era cresciuta quando l’agenzia si era occupata degli album dei Pink Floyd. La prima versione della cover fu rispedita al mittente dal gruppo. La sua prima stampa, poi, venne rifiutata perchè uscita con macchie viola. 
L’artwork definitivo provocò infine una censura da parte di molti negozi di dischi, indignati per la presenza di due bambini nudi che scalano le rocce del Giant’s Causeway (costa vulcanica dell’Irlanda del Nord). Se ne vedono undici, ma in realtà sono sempre gli stessi due, replicati e moltiplicati in un collage: sono Stefan e Samantha Gates (che sarebbe comparsa anche sul retro della copertina di “Presence” nel 1976) e nella foto scattata in bianco e nero da Aubrey Powell rendono omaggio al libro di Arthur C. Clarke “Childhood’s End”. Come al solito la copertina non riportava né il nome del gruppo né il titolo dell’album. La Atlantic Records ottenne però il permesso di avvolgerla in una confezione cartacea che rendesse il disco riconoscibile.

Track by track

L’apertura del primo lato è a cura di un pezzo destinato a diventare un inno dal vivo, “The song remains the same”. Può ritenersi una jam da studio, perchè Jimmy Page utilizza la sua maestria sovrapponendo parecchi strati di chitarre, eppure il brano riesce a conservare la fluidità e la spontaneità di una registrazione live. John Bonham lo sostiene come un’impalcatura, con il suo drumming robusto che non tradisce cedimenti e lascia che i riff insieme agli acuti vocali di Robert Plant lo rendano così dinamico. Oggi sappiamo che il pezzo era stato concepito come strumentale e che il suo titolo originale era “The Overture”, poi mutato provvisoriamente in “The Campaign”: era stato inteso come intro per “The rain song”, seconda canzone del disco, che offre il primo cenno di deviazione dal solco tradizionale della band. Intanto è una ballata – in parte una risposta a una critica di Goerge Harrison, che aveva fatto notare a Bonzo che il suo gruppo non ne faceva mai. E poi incorpora un’orchestra con una meravigliosa sezione d’archi, il mellotron (John Paul Jones) e propone una fusione ideale tra il suono dell’elettrica e dell’acustica. Infine contiene una delle più belle outtro della storia del rock.

“Over the Hills and Far Away” sembra volerne continuare l’atmosfera, invece è solo un’illusione: la partenza acustica non è che un trampolino per la sezione intermedia del brano, che sfocia in puro hard rock. Quando si parla di pezzi “dinamici”, ma anche di “folk-metal”, questo è IL benchmark, con una delle migliori sezioni ritmiche di ogni tempo al massimo della forma e un riff con le 12 corde che fa la storia.

Il primo lato si chiude con qualcosa che non ti aspetti. Cioè, con James Brown evocato dall’inizio alla fine in “The crunge”. Che dire? I Led Zeppelin evidentemente possono suonare il funk molto ma molto bene: Bonham è sincopato e swinging, e al tempo non lo sapevamo ancora; il basso di Jones è, praticamente, un elastico; Jimmy Page alla ritmica è una sorpresa, tanto siamo abituati ai suoi assoli e arpeggi. Ma a partire dal titolo – che evoca qualcosa che dà i brividi – e continuando con il testo (che omaggia pure Wilson Pickett menzionando “Mr. Pitiful”) per finire con l’interpretazione vocale di Plant e i suoi ostentati richiami ai concerti di Mr Dynamite con quei continui cenni al “bridge”, il rischio caricatura è dietro l’angolo. Un passo falso? 

La seconda facciata inizia con quella che viene spesso citata come la prima pop song della band che aveva trasformato il blues nell’hard rock facendone una forma d’arte. “Dancing Days” è addirittura quasi bubblegum nelle liriche, però contiene sprazzi di genio alla chitarra (anche qui: overdubs in abbondanza), chiaramente riecheggiante quell’India entrata nelle corde di Page e Plant grazie ai loro (allora) recenti viaggi laggiù.

Si prosegue con “D’Yer Ma’ker”, ovvero: se il Galles fosse la Giamaica. La chitarra non è reggae, la batteria tanto meno (è, anzi, molto pesante) e Plant… fa Plant. Eppure suona come reggae. Bonzo avvia il brano lanciandosi in un ritmo doo wop (piazzando in studio tre microfoni sotto la sua batteria, ma abbastanza distanti da creare riverbero), poi Jones opera una transizione verso il dub e la band lo segue. Roba sfiziosa, a partire dall’ironia del titolo (che sta per Giamaica, perchè pronunciato da un inglese “D’Yer Ma’ker” suonerebbe come “Jamaica”), ma neanche questa è necessariamente una ciambella riuscita col buco.

“No Quarter” è farina del sacco di John Paul Jones ed è un capolavoro compositivo. Aveva preso corpo ai tempi di “Led Zeppelin IV” senza evolvere nella giusta direzione. Gli annali tendono a rimarcarla come l’alba del doom metal, come il prodromo naturale del primo suono di band come i Black Sabbath. E’ quintessenzialmente metallica, grazie alla deliberata cupezza della sua atmosfera e al testo del pezzo che parla di “non fare prigionieri” in un’ambientazione bellica mitologica, senza essere però essere particolarmente “pesante” nel suono. E anche per questo, a modo suo, lambisce il prog rock che stava facendosi strada.

L’album termina con un ritorno al rock: “The Ocean”, il cui titolo accenna al mare di fans che affollano i concerti dei Led Zeppelin, torna a proporre il meglio dei riff della casa e del passato, con una parte vocale a cappella dopo che l’introduzione aveva proposto la voce di John Bonham ("We've done four already but now we're steady and then they went, one, two, three, four"). L’idea, probabilmente, è di concludere col botto: energia, velocità e boogie.

Deviazioni dalla storia, per la storia

“Houses of the Holy” sconvolse la meravigliosa monotonia del gruppo in più di un modo. Per la prima volta con un titolo vero e non eponimo – curiosamente, la sua title track apparterrà a un altro disco. Ma soprattutto con una contaminazione di generi e stili all’epoca inattesi, se non addirittura inconcepibili. 
I Led Zeppelin erano stati devoti a una forma di blues primordiale, tingendolo di rock con un’energia e un’adrenalina che poggiavano su una qualità musicale stellare. Il tempo e il rock da stadio avevano gradualmente stemperato parte di quelle caratteristiche, e dopo la pubblicazione del loro classico dei classici, ossia il quarto album, “Houses of the Holy” li poneva nella scomoda posizione tipica di chi doveva  dimostrare il proprio valore con il secondo album. Sì, perchè il loro quinto disco era un po’ come se fosse il primo, dopo un opus magnum composto da quattro album coerenti. Non potendo più competere con il loro passato, eccoli dunque deviare dalla strada maestra.

Per molti fu la svolta pop, che equivaleva a un sacrilegio; per altri fu l’irrequietezza positiva di una band che non riposava sugli allori; per certi fu la carenza di idee che generava un patchwork; per altri ancora fu il momento migliore di quattro ragazzi che per la prima volta componevano veramente insieme “in ritiro” e sfoderavano un John Paul Jones in più in sede compositiva. Chi aveva ragione? Tutti, forse? 
“Houses” è un album variegato, con una miscela più ricca che in passato, capace di affiancare “Il Signore degli Anelli” al blues, usando il folk per sdoganare qualche bizzarria, a volte lasciando che la mistica prenda il sopravvento sulla furia pura.

Alle perplessità della critica il botteghino oppose 11 milioni di copie vendute.
Nel tempo avremmo sentito l’album riecheggiare nel metal e nell’hard rock dei due decenni successivi, influenzare gli anni ’90 sfiorando il grunge di sponda Soundgarden fino a rivivere di recente nel suono e nello stile dei Greta Van Fleet.

Tracklist

01. The Song Remains the Same (05:31)
02. The Rain Song (07:40)
03. Over the Hills and Far Away (04:50)
04. The Crunge (03:15)
05. Dancing Days (03:45)
06. D’yer Mak’er (04:25)
07. No Quarter (07:04)
08. The Ocean (04:32)
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