Sparks a Milano: la prima volta in Italia di una band di culto
                                            Cosa vi aspettate dalla recensione del concerto degli Sparks di ieri sera all’Arcimboldi di Milano, se la scrive uno che ha comperato (da Carù) il loro primo disco nel lontano 1971 – quando ancora si chiamavano Halfnelson – e che da allora li segue fedelmente e convintamente, pur fra gli altri e bassi della loro carriera e della loro produzione discografica (26 album di inediti, qualche compilation e un album in condominio con i Franz Ferdinand)?
La mia devozione nei confronti di Ron e Russell Mael è a prova di bomba, e l’unico rischio che correvo, arrivando al teatro ieri sera, era quello di rimanere non dico deluso, ma non del tutto soddisfatto. Sapevo che non avrebbero eseguito tutti i miei favoriti fra i loro pezzi – sarebbero stati troppi (vedi qui e qui) – e se avevo una preoccupazione specifica era quella che Russell, il cantante del duo, oggi quasi settantasettenne, non riuscisse a sfoggiare a dovere il falsetto per il quale è diventato celebre (celebre, s’intende, all’interno della cerchia di appassionati fedelissimi di una band per la quale la definizione “di culto” è quanto mai appropriata).
Fra i fedelissimi, ieri sera non c’era Enrico Ruggeri (impegnato in concerto a Piacenza), con il quale quando ci siamo conosciuti, al Sanremo del 1980, abbiamo scoperto di condividere la passione per gli Sparks, e non c’era il mio amico Silvio Poli, impossibilitato a partecipare da cause di forza maggiore; c’erano però Stefano Bianchi (che per Rockol ha intervistato qualche settimana fa Russell) e lo scrittore Matteo B. Bianchi. Non esattamente due giovanissimi; del resto, il pubblico era costituito da, diciamo così, aficionados stagionati (con qualche rara eccezione, ma con una per me inattesa presenza femminile: pensavo mi sarei ritrovato a un raduno di alpini). Il teatro, purtroppo, non era affollatissimo; la promozione del concerto è stata buona, la pubblicità invece mi è parsa piuttosto carente
Quello di ieri era il primo concerto italiano in assoluto del duo; che era passato dalle nostre parti nel 2015, per tre concerti insieme ai Franz Ferdinand (con i quali avevano formato un’estemporanea band chiamata FFS, come dire Franz Ferdinand Sparks, oppure For Fuck’s Sake, che ha pubblicato l’eponimo album congiunto e ha tenuto tre date italiane, mal promosse, nel 2015: 7 luglio a Genova, 16 luglio a Catania, 3 settembre a Treviso).
Io avevo ascoltato dal vivo il solo Russell nel 2007, in occasione di un concerto che sarebbe potuto essere straordinario e che invece fu un mezzo flop – ne abbiamo scritto qui). In quell’occasione, oltre a sentirlo ricantare due canzoni dei Beatles ("When I’m Sixty Four" e "It’s All Too Much") insieme ad un cast stellare (qui l’ampia recensione di SentireAscoltare) avevo anche avuto l’opportunità di scambiare due parole con Russell, e di farmi autografare un esemplare dell’invito che avevo realizzato l’anno prima per il mio matrimonio – un’elaborazione della copertina di “Angst in my pants”, l’album del 1982 appunto degli Sparks.

Ron Mael, invece, non l’avevo mai visto di persona. Ron, ottant’anni il prossimo agosto, è il “fratello maggiore” degli Sparks, il tastierista con i baffetti che il 27 dicembre del 1974, quando il duo presentò a “Top of the Pops” la sua “This town ain’t big enough for both of us”, fece correre al telefono John Lennon per avvisare un amico: “Guarda, c’è Hitler in TV!”.
Il concerto è cominciato con puntualità svizzera, alle 21 precise, e il gruppo, accolto da un applauso affettuosissimo, ha aperto la serata con “So may we start”, dalla colonna sonora del film “Annette”, di Leos Carax, per il quale gli Sparks hanno realizzato nel 2021 la colonna sonora.
Supportati efficacemente da una band di quattro giovanotti – due chitarre, un basso e una batteria – le cui età sommate probabilmente non raggiungono il totale delle età dei due fratelli Mael, Russell e Ron sono apparsi in ottima forma, e come ci si aspettava di trovarli: sempre statuario alla tastiera il secondo, ginnico e saltellante il primo, con la voce ancora capace dei suoi caratteristici falsetti. La scaletta (che trovate in coda) si è srotolata fra brani del nuovo album “Mad!” e ripescaggi dagli album del passato, con qualche sorpresa (“Goofing off”), l’immancabile “This town ain’t big enough for both of us” e ben tre brani tratti dall’album del 1979 “N°1 song in heaven” , realizzato insieme a Giorgio Moroder (“Beat the clock”, “Number one song in heaven” e “Academy Award Performance”)
Particolarmente riuscita, dal punto di vista dell’originalità, è stata la versione di “Suburban homeboy” (dall’album “Lil’ Beethoven”, del 2002, recensito qui) per la quale Ron ha lasciato la tastiera – marchiata “Ronald” e non “Roland” – per affiancare il fratello nell’interpretazione del testo, in una sorta di recitativo buffo e sorprendente (non ha sorpreso invece la seconda escursione al proscenio di Ron, che su “Number one song in heaven” non ha fatto mancare la sua routine del “ballet mécanique”).

Il pubblico, fino a quel momento generoso di applausi ma seduto nelle poltrone, si è alzato in piedi (con qualche scricchiolìo di giunture e, come ha commentato ferocemente Stefano Bianchi, “un roteare di cateteri”) sulle note di “Music you can dance to”, e in piedi è rimasto fino alla fine, richiamando la band per il (previsto) bis e, alla fine di questo, tributando una lunga (e meritata) ovazione ai fratelli Mael; Russell, ottimisticamente, ha promesso che li rivedremo presto in Italia. Noi pochi fortunati – grazie a Spin-Go – abbiamo avuto l’opportunità di salutarli nell’aftershow, ed è stata, devo proprio dirlo, una bella emozione, per uno che li segue dal lontanissimo 1971. Peccato che in scaletta non ci fossero "Amateur hour" e (la mia preferita) "Never turn your back on mother Earth"; sarà per la prossima volta, se ci sarà - e se ci saremo.
Scaletta:
So May We Start (dal soundtrack di “Annette”, 2021)
Do Things My Own Way (da “Mad!”, 2025)
Reinforcements (da “Propaganda”, 1974)
Academy Award Performance (da “N°1 song in heaven”, 1979)
Goofing Off (da “Introducing Sparks”, 1977)
Beat the Clock (da “N°1 song in heaven”, 1979)
Please Don’t Fuck Up My World (da “A steady drip, drip, drip”, 2019)
Running Up a Tab at the Hotel for the Fab (da “Mad!”. 2025)
Suburban Homeboy (da “Lil’ Beethoven”, 2002)
All You Ever Think About Is Sex (da “In outer place”, 1983)
Drowned in a Sea of Tears (da “Mad!”, 2025)
JanSport Backpack (da “Mad!”, 2025)
Music That You Can Dance To (da “Music that you can dance to”, 1986)
When Do I Get to Sing "My Way" (da “Gratuitous sax and senseless violins”, 1994)
The Number One Song in Heaven (da “N°1 song in heaven”, 1979)
This Town Ain't Big Enough for Both of Us (da “Kimono my house”, 1974)
Whippings and Apologies (da “A woofer in tweeter's clothing”, 1973)
Lord Have Mercy (da “Mad!”, 2025)
Bis:
The Girl Is Crying in Her Latte (da “The Girl Is Crying in Her Latte”, 2023)
All That (da “A steady drip, drip, drip”, 2019)