Claudio Rocchi: un testimone del suo tempo

Claudio Rocchi ci ha lasciato il 18 giugno 2013, dieci anni fa, e certamente non dimenticheremo il suo sguardo penetrante, la sua acutezza di pensiero, la sua ficcante vitalità, il suo desiderio di essere sempre in ricerca, con una passione da visionario incrollabile e sincera. Ha intrapreso la carriera di musicista alla fine degli anni Sessanta, in una Milano ricca di fermenti artistici, facendo comprendere quanto fossero ricche di stimoli originali la sua musica e le liriche che componeva. È stato capace di costruire un percorso artistico unico e non riproducibile, cogliendo gli aspetti spirituali provenienti da un mondo giovanile in fermento prima che la grande ondata del terrorismo inondasse il Paese, prima che la droga invadesse corpi e anime di una generazione. Claudio Rocchi ci ha lasciato, ma è sempre insieme a noi perché, in fondo, “La realtà non esiste”, e lui si è trasformato…
Rosario Pantaleo (L'isola che non c'era)
“Vado in India” – (45 giri, 1972)
Vogliamo iniziare questo ricordo di Rocchi con qualcosa che non potrebbe essere più lontano di così da una classica “canzone”. Ma Rocchi è questo, meglio chiarirlo subito. È qualcosa di unico, fuori dal “sistema” precostituito della discografia, e quindi ci è sembrato giusto partire così. Undici minuti, suddivisi nella facciata A e B del 45 giri pubblicato nel 1972, raccontano un brano molto “indiano”. “Vado in India” è, appunto, il suo titolo, e ovviamente i suoni a contorno non potevano essere che fortemente iconici rispetto ai sentieri dell’Oriente. Suoni misurati e brillanti, con campanellini, strumenti a corda, strumenti percussivi… E poi quella voce, suggestiva, che accompagna l’incedere, quasi salmodiante, della musica; una musica frastagliata, spezzettata, non uniforme. Il suono è quello etnico della World Music ancora da venire ma, in quei giorni, saranno proprio Claudio Rocchi, gli Aktuala e un manipolo di musicisti sconosciuti a fare intravedere un mondo musicale incredibile e seducente. Il pianoforte entra nei suoni con delicatezza, mentre le liriche indirizzano l’ascoltatore su tematiche ambientaliste, il rispetto degli alberi, degli animali, della natura, ricordando che siamo tutti parte di una grande famiglia: quella del genere umano. “Quando giri il disco pensa a te stesso”, recita una voce tra le due facciate… Paradiso, inferno, parole lanciate verso il cielo ed immerse in ‘suoni di frontiera’ per raccontare di sé stesso, delle proprie scelte di vita, del proprio nuovo credo. “Se hai qualcosa da dire agli altri, dillo prima a te stesso…”, recita il testo, per cercare di fare comprendere quanto diverso deve essere l’approccio alla vita, alle relazioni con le altre persone. Voci cantanti e recitanti, in hindi, accompagnano le note di un sitar e della voce di Rocchi, che arriva al termine del brano ricordando come sia importante comprendere che ogni storia deve finire, che la morte attende tranquilla e ci aspetta. Ma questo non deve spaventare, perché ciò che è ineluttabile non può fare paura. Ha un senso, una logica, chiude un cerchio. Dallo spavento incombente ci salvano, però, un sorriso, un suono, una canzone; la vita e la morte che si abbracciano e la parola ‘amore’ che rimane per sempre.
“La tua prima luna” – (“Viaggio”, 1970)
Mentre si ascoltano le liriche e le note di “La tua prima luna”, pare di osservare lo sguardo ieratico, ispirato, dolce e gentile di Rocchi. Uno sguardo che cerca di penetrare la realtà, di superare le ovvietà e tutte le convenzioni di un tempo ‘di confine’, di un tempo nato per oltrepassare tutto ciò che sapeva di vecchio, di ottuso, di scontato, di antiquato, di inutile, di corroso e corrotto. Era arrivato il momento in cui dare un senso preciso alla propria gioventù, e la musica era un importante vettore di conoscenza e di trascendenza, laica ed artistica, che travalicava tutto ciò che era noto per diventare fida compagna di viaggio in territori sconosciuti. La prima luna citata nella canzone altro non era che quella incontrata da molti giovani che lasciavano le proprie abitazioni, le proprie famiglie, per aggregarsi ad altre ‘famiglie’, per costruire nuove comunità, altri stili di vita, altre culture. E se la famiglia di origine poteva essere considerata una sorta di ‘camera a gas’, come teorizzò qualche anno dopo la rivista alternativa ’Re nudo’, la cifra artistica ed il carattere di Claudio Rocchi ingentilivano ogni frattura, ogni divisione di classe, censo, età, ideologia, alla ricerca della vera libertà: quella che è intuita dentro ciascuno di noi ma che, inevitabilmente, perdiamo quando si va alla ricerca, ossessiva, di un benessere materiale che compromette quello spirituale. Proprio quel benessere di cui “quei ragazzi e quelle ragazze” sapevano di non trovare in mondi “che parlavano ancora di moto e di donne…”. La prima luna, si pensava allora, avrebbe preceduto una nuova alba e un nuovo giorno e, secondo le speranze di migliaia e migliaia di giovani, un mondo nuovo sarebbe sorto all’orizzonte spazzando via il passato per costruire il futuro. Così non avvenne; ma, nonostante la sconfitta, a ciascuno rimase il sogno, il desiderio, di una prima luna sempre possibile, sempre attesa, sempre fragile e timorosa di non riuscire a sopravvivere alle notti che sarebbero arrivate. E puntuali, arrivarono…
“La realtà non esiste” – (“Volo magico n.1”, 1971)
"La realtà non esiste" è una canzone che… non è una canzone. Intanto perché l’intro del pianoforte è così minimalista da essere dirompente, con il suo stillicidio di piccole note che pare provengano da un altro pianeta. Poi perché Claudio Rocchi, che quando incide il brano ha solo 21 anni ma ha già le idee chiare sul suo ruolo di artista visionario, canta come un eretico delle sette note, rappresentandosi come sentinella e viaggiatore proveniente dalle stelle per scuotere le energie dei giovani inquieti ed alla ricerca di efficaci strumenti di lettura della realtà. Morbida, gentile, fluida, melliflua, l’armonia che sostiene “La realtà non esiste” è una sorta di elegia del TAO, laddove la ragioni del dualismo sono inscritte nel libro magico ed armonioso dal titolo ‘La regola celeste’ attribuito al saggio Lao Tse. Tutto il brano si regge solo sulle note del pianoforte e sulla voce di Rocchi, che declama liriche tra le più struggenti e stranianti mai scritte da un artista italiano. Testi che guardano all’interno dell’anima, alla ricerca di spiragli di libertà. La dualità rende possibile uno sguardo oltre le apparenze, le circostanze, le convenzioni per arrivare alle ragioni dell’essere, dell’esistere, del divenire. Se la realtà non esiste perché, quindi, dannarsi per il denaro, per il potere, per la follia del volere diventare schiavi del nulla, dell’effimero? Se la realtà non esiste perché, quindi, non strappare il velo di Maya posto davanti ai nostri occhi a perenne dimostrazione della debolezza umana incapace di superare le contingenze, i desideri, le tentazioni? Poco più di due minuti è la durata del brano, ma questi pochi brandelli di tempo paiono, in realtà, molto più lunghi perché nel canto si percepiscono mantra sottintesi, perché il canto propone le liriche quasi salmodiate, contemplando il silenzio come parte del suono. “La realtà non esiste” è una canzone (?) attuale, senza tempo, senza confini, con lo sguardo sempre proteso verso l’orizzonte. Un brano che rappresenta una sorta di nave cosmica allestita per trasportarci verso il fine ultimo della vita: conoscere, amare, condividere, superare, andare…
“Una fotografia” – (“A fuoco”, 1977)
Voce (delicata) e pianoforte: così inizia “Una fotografia”, che racconta dello sguardo sul passato e sui ricordi. È quasi sempre il senso della vita, costruito sulle cose scontate, piccole, quasi insignificanti, a fare capolino nella discografia di Rocchi. La vita è figlia e frutto di ciò che siamo, di quello che abbiamo fatto; la vita è ciò che ci coglie all’improvviso ma, anche, il frutto dei passi da noi compiuti sui suoi sentieri. Il senso della ciclicità delle cose è il centro del brano: “Vivo da sempre cercando di non fare sbagli…”: ma la consapevolezza d’essere fragili è sempre presente e non si dissolve nonostante il depistaggio creato dalla melodia, accattivante, racchiusa nel suono degli archi e del pianoforte, base sonora su cui si appoggiano le liriche della canzone. Il senso della vita, della morte, del trascorrere dell’esistenza, sono una parte fondamentale della cifra artistica di Rocchi che ha sempre cercato di scoprire, e trasmettere, le sue emozioni per condividere il senso di un passaggio terrestre che non deve né può essere banalizzato, perché la ricchezza dell’universo, nel suo micro e macro cosmo, necessita di una riflessione, di un pensiero capace di superare le apparenze. “In fondo alla vita non si può che morire… proprio come essere vivi”. Pare di leggere, in questo inciso, il senso della ciclicità della vita e della morte. Tutto gira “intorno al suo perno”, tutto ciò che inizia poi finisce ma, nello stesso tempo, nulla scompare davvero perché nulla inizia, essendo ogni cosa racchiusa nel ciclo dell’eternità. Il suono è morbido, quasi classico, con archi in modalità ‘musica da camera’. Come in tutta la sua produzione artistica, lo sguardo di Rocchi cerca di attraversare ciò che è evidente a tutti per raggiungere quei mondi di cui, spesso, percepiamo l’esistenza, ma con i quali non riusciamo a comunicare perché non possediamo il giusto vocabolario, la necessaria sensibilità per evocarne la presenza, reale e concreta, come invece riesce a fare chi ha lo spirito giusto, lo sguardo oltre l’orizzonte.
“O sei parte del problema o sei parte della soluzione” – (“Un gusto superiore, 1980)
Basso, chitarra, voce e uno sguardo verso l’eternità. Questo è il senso che sottende “O sei parte del problema o sei parte della soluzione”. Le tastiere avvolgono le liriche che sottolineano la necessità di ciascuno di impegnarsi per cercare di avere consapevolezza del passaggio su questa terra, sul pianeta, nell’Universo. Anche in questo caso è il bisogno di trovare il senso della vita a trascinare il brano con forza e tensione. La visione del mondo, nel periodo in cui la canzone fu scritta e incisa, è fortemente influenzata dall’appartenenza di Rocchi alla comunità degli adepti di Krishna, una delle maggiori divinità presenti nel pantheon indù. Una comunità, questa, che ebbe un momento di forte espansione a metà/fine degli anni ’70 e vide una folta presenza, nella sede di San Casciano in Val di Pesa (un piccolo paradiso alle porte di Firenze), di molti giovani affascinati dalle religioni orientali e, anche, di vari musicisti tra cui Paolo Tofani degli AREA, presente all’incisione di questo brano. Al di là dei suoni morbidi, ipnotici, spirituali, il testo è molto chiaro e già dal titolo del brano si percepisce un’esortazione a scegliere da quale parte stare, a non essere indifferente a ciò che accade intorno a ciascuno di noi. Furono anni importanti quelli della pratica “indù” da parte di Claudio Rocchi che, anni dopo, si sposterà in Nepal dove fonderà una radio che dirigerà per tre anni: ‘The Himalayan Broadcasting Company’. Anche in questa attività, l’artista milanese sarà un precursore per quelle latitudini lontane e porterà nel suo lavoro la sua spinta umana, ideale e mistica proprio nei luoghi mitizzati da molti coetanei della sua generazione. Il brano è da leggere, comunque, come un invito forte e pregnante, e Rocchi pone un bivio ineludibile: bisogna scegliere da che parte stare, non avere scuse, non fingere di non vedere e di non sapere perché la realtà, comunque, pare voglia dirci la canzone, alla fine ci cadrà addosso e dovremo essere preparati alle conseguenze.
“La norma del cielo” – (“La norma del cielo – Volo magico n. 2”, 1972)
Un flauto dolce e il suono denso e caldo delle tastiere, seguito da quello della chitarra che annuncia e sostiene la voce di Rocchi, è l’atmosfera che ci introduce in questo brano; ma subito dopo ecco che entra un pianoforte che ‘sgocciola’ note chiare, squillanti. Una musica dolcissima, irreale, morbida, ipnotica, gioiosa, che si richiama alle parole della Regola Celeste di Lao Tse. È una meraviglia di canzone “La norma del cielo” che, a distanza di quasi cinquanta anni, riesce ancora a commuovere ed emozionare. “Il nome divide la forma e l’illusione, lo specchio è sé stesso quando è vuoto…”. La teoria del “vuoto che riempie di tutto ogni cosa…”, la ricerca di uno stile di vita, di un percorso da condividere. Una canzone che è un brandello di filosofia di vita che chiede di porre l’attenzione alle cose semplici, a cercare e trovare il valore di sé stessi, che invita a porsi con uno sguardo benevolo sugli altri affinché quello che conta non sia il possesso, il denaro ma la libertà interiore… “Non avere desideri non volere possedere, non sarai posseduto dal volere”. Allontanare il desiderio, sconfiggere la bramosia di essere con l’avere, cercare l’infinito “senza nome è l’inizio del cielo e della terra…”, perché quando iniziamo a dare un nome alle cose, allora queste diventano possesso e il rischio – altissimo – è che si generino divisioni, rivendicazioni, guerre… Claudio Rocchi, con i suoni del tempo, in un mix di West Coast e di oriente, con la sapienza personale, costruì un brano che rappresentava una sorta di stimolo ideale per coloro che cercavano di trovare, anche a tentoni, una via differente rispetto a quella proposte dalla realtà, si chiamasse, questa, conformismo, lotta politica, fuga nelle alternative della mente… Nelle liriche di una canzone come “La norma del cielo” è condensato un mondo, il suo inizio e la sua fine ma, soprattutto, la consapevolezza di essere fragili e di passaggio. Da ciò discende l’imperativo che il tempo a disposizione non può essere sciupato, perché il cielo è sopra ogni cosa…
“Essenza” – (“Essenza”, 1973)
La voce di un bimbo incontra il suono di un harmonium. Così Rocchi sceglie di iniziare “Essenza”, dove una parola pronunciata da una voce infantile, “Domani”, pare voglia lanciare lo sguardo verso l’orizzonte. La voce di Rocchi, ieratica e docile, richiama il valore del canto come strumento di ricerca del sé interiore. E in sottofondo il bimbo continua a fare sentire la sua voce percuotendo, insieme, un tamburo. La musica dell’harmonium continua a riempire ogni spazio, sembra provenire da un mondo lontano e si manifesta come una sorta di porta che si apre e si chiude su mondi prossimi e paralleli, ma invisibili agli occhi. Le liriche rappresentano come un elenco di condizioni che vengono acquisite ma, anche, rilanciate per costruire nuove rappresentazioni del sé. La presenza della voce del bimbo pare voglia richiamare il bisogno, l’esigenza, la necessità di ritornare all’ingenuità primigenia dell’essere bambini, aperti al mondo, senza pregiudizi né scopi nascosti. Allora si comprende, partendo da questo assioma, il lavoro artistico marcato dal cantautore: che la ricerca dell’essenza di sé è lo scopo della vita. La ricerca dell’essenza del sé è il bisogno della vita. La ricerca della semplicità delle cose è come la voce di un bimbo che, nella sua semplicità, sta come recitando un mantra fatto di ciò che gli gira intorno, racchiuso all’interno della sua realtà, di cui non conosce l’origine ma per la quale è pronto a camminare, crescere, maturare, superando i propri genitori, la propria condizione, raggiungendo, o cercando di raggiungere, una dimensione “altra”, oltrepassando lo stato corrente delle cose per trascenderle e, insieme, trasformarle. Il minimalismo assoluto è la cifra di questo brano in cui la voce di Rocchi, l’harmonium e la voce del bimbo, si intersecano tra loro rendendo possibile, reale e visibile, il bisogno di convivenza del “prima” e del “dopo”, con la musica che rappresenta una sorta di collante pieno di struggente suggestione.
“È per te” – (“Essenza”, 1973)
Ascolti “È per te” e ti sembra che lo sguardo si allontani dalla tua interiorità per guardare verso l’altro, gli altri. È un grido di disperazione e di consapevolezza nei confronti dell’uso degli stupefacenti da parte di un vasto mondo di giovani. Un grido per cercare di attirare l’attenzione su una situazione, a quei tempi, terribile (anche oggi, certamente, ma allora in maniera più devastante e ‘nuova’…). La musica rincorre le note come fosse una sorta di cavalcata per giungere alla realtà delle cose. Il suono è duro, aspro, cupo, disperante, percussivo. La voce di Rocchi sembra voglia esprimere il disagio per una condizione inaccettabile e considerata quasi insuperabile. L’attenzione verso chi era coinvolto in una spirale luttuosa e terribile era scontata per una figura anticonvenzionale come Claudio Rocchi, anche se le sue modalità espressive, certamente, non erano quelle consuete del cantautorato classico in quanto in lui convivevano soggetti interiori differenti, spiazzanti, critici, profondi. Rocchi era l’alternativo, l’uomo vicino alle religioni orientali, il musicista originale, l’artista con lo sguardo politico nel senso più alto del termine. Era l’artista e l’uomo capace di vedere il futuro senza declamarlo ma mostrandolo quasi di sfuggita, attraverso parole e suoni certamente inusuali. “È per te” è un brano duro, spiazzante, espressivo della lettura di un disagio psicologico molto forte; un brano che sembra aver bisogno di qualcuno che interrompa la corsa verso l’anelito distruttivo del soggetto della canzone. Una canzone in cui è presente, come in tante altre della sua produzione, lo sguardo sulla potenziale grandezza degli uomini ma, insieme, si palesa la loro capacità di generare dolore per se stessi e per gli altri. L’augurio, alla fine, è che “il fratello” evocato sappia usare in maniera proficua le proprie capacità, i propri talenti, le proprie facoltà intellettive. Spegnere il desiderio, accendere le emozioni, questo il messaggio…
“Il mio esistere” – (“Sulla soglia”, 1998)
Un suono di pianoforte apre alla voce di Rocchi che racconta del suo incontro con la luce: questo è l’incipit de “Il mio esistere”. Tra le parole si manifestano immagini oniriche, ma sempre sobrie e comprensibili a chiunque, strettamente legate alla realtà spirituale che ha pervaso la vita dell’artista milanese. Il brano è una sorta di summa della consapevolezza della difficoltà dell’essere persona in questo mondo ma, contemporaneamente, si percepiscono il desiderio ed il bisogno di essere altro, di perseguire in maniera costante la ricerca di una dimensione superiore. Il sole è utilizzato, quindi, come forma metaforica di attenzione alla propria realtà. Una realtà che desidera travalicare, sempre, l’immediato, il contingente, per proiettarsi al di là dello stato presente. La musica è vista come opportunità per fare vibrare le cellule del proprio corpo, concependo una differente consapevolezza di sé nell’integrità del corpo e dello spirito. Nulla è lasciato al caso, tutto è, invece, racchiuso, nella logica del trovare nel piccolo, in sé stessi, le ragioni per trasformarsi in una unità superiore, in qualcosa che dà ragione alla luce del sole, che attraversa corpi e menti per renderli diversi e capaci di generare “qualcosa” che va al di là delle proprie percezioni. Un brano mistico, certamente, che cerca di superare il dualismo corpo/anima per attraversare stati di coscienza superiore e trovare, così, la giusta sintesi tra la nostra condizione di caducità e quella di assoluto, di integro, di inarrivabile ed immortale. Perché la luce del sole la si può anche contenere ma, alla fine, sarà questa ad essere, nella sua impalpabilità, l’elemento dal quale non potremo prescindere per proseguire il cammino e che ci aprirà l’orizzonte verso un “dopo” straordinario fatto di assoluto. Sempre che si riesca ad avere vera e profonda consapevolezza di questo.
“L’orizzonte a Milano” – (“A fuoco”, 1977)
Nonostante tutta la discografia di Claudio Rocchi sia pregna di spiritualità, sguardo mistico e attitudine cosmica, “L’orizzonte a Milano”, racconta della città in cui l’artista è nato, dove ha percorso molta strada, dove ha costruito molti sogni; è la città dei suoi anni giovanili e di lotta. È il racconto, attraverso un suono epico, forte, profondo e deciso, di un periodo storico controverso, difficile, dove ai sogni di “peace and love” si sovrappose la violenza; dove a un orizzonte già grigio di suo si aggiunsero l’intolleranza e la rabbia distruttiva così ben manifestate anche attraverso scritte tribali e trucide vergate sui muri della città. Un brano dove pare evidenziarsi il palese scollamento tra il Rocchi mistico ed il Rocchi politico? No, questa è solo una sensazione, perché le due anime dell’artista non sono in antitesi ma si reggono entrambe nella ricerca delle migliori modalità per esprimere la vita nel tempo presente. È un brano grigio, “L’orizzonte a Milano”, questo sì, perché racconta di paure e di timori, di mancanza di prospettive, di orizzonti che non riescono a sfondare i muri dell’indifferenza che prendono atto di una lotta politica che non rispetta la vita. Non ci sono pensieri in opposizione, bensì la consapevolezza che esistono crociati di differenti schieramenti che si sono votati alla reciproca distruzione. E’ una Milano oscura, quella raccontata da Rocchi, una città in crisi che vorrebbe guardare il cielo ma ne è impedita dalla propria incapacità a sognare, che non riesce ad esprimere la parte migliore di sé. Una città che sente il peso della violenza politica ma anche quello della ‘dipendenza’, dell’autodistruzione. Una città dove camminavano anime perse alla ricerca di un salvatore che non poteva che essere il desiderio di riscatto con l’amore, con la luce, con la liberazione dai propri fantasmi e demoni. Claudio Rocchi è stato un testimone preciso e scomodo, che ha saputo offrire uno sguardo preciso del presente ma sempre nella certezza che un domani, costruito e non imposto da nessuno se non da noi, è lì che ci aspetta. Ora come allora.