
Pino sembra decisamente in forma, e ha molta voglia di parlare, forse perché questo "The best of Pino Daniele" gli è servito per mettere a fuoco la propria carriera passata e futura. Proprio da questo argomento si dipana la chiacchierata dell’autore di "Je so’ pazzo", in occasione della presentazione della raccolta.
Di solito un "greatest hits" è un’occasione per fare il punto sulla propria carriera, per guardarsi alle spalle prima di guardare avanti. E’ stato così anche per te?
"Sì, secondo me quest’album, con le sue canzoni, da "Napule è" a "Che male c’è" a "Quanno chiove" descrive perfettamente il mio modo di creare canzoni. In questo modo ho voluto chiudere con un ciclo per aprirne uno nuovo, del quale si trovano tracce nei pezzi inediti. In particolare c’è l’ultimo brano dell’album che è strumentale e rappresenta il mio futuro. Sto lavorando e sperimentando delle cose con un quintetto d’archi e con un’orchestra, e quindi mi avvicino alla musica strumentale perché sto sperimentando delle idee melodiche nuove. E’ un’esperienza che mi arricchisce molto: ritornare alla musica classica però rivista e corretta con i suoni di oggi".
E’ questo che farai da domani?
"Beh, lo sto già facendo. Per Natale molto probabilmente uscirà un album con questo quintetto d’archi, solo strumentale, e vorrei che i proventi andassero in beneficenza a favore degli orfani della mia città. Ma preferirei parlarne quando il progetto sarà concretizzato. Per il resto, nel periodo a venire - un anno e mezzo, due anni - farò concerti, e un po’ di esperimenti".
E solo musica strumentale?
"No, quello è solo uno dei percorsi che mi interessano. Ad esempio della raccolta fa parte anche "Senza peccato", che è un accenno a "Yes I know", che è un pezzo che mi ha rappresentato abbastanza bene negli anni ’80. Ho rinnovato questo brano attraverso la collaborazione con i Simple Minds perché la mia ricerca andrà sempre di più su quelle che sono sonorità abbastanza mitteleuropee. Sonorità moderne che però rispecchiano i suoni della vita di oggi. "Senza peccato" rappresenta l’inizio del tipo di musica che mi accompagnerà nei prossimi anni. È la chiusura di un modo anche abbastanza immediato di comportarmi con la canzone melodica".
Qualcuno ha detto che ti stai allontanando dal blues.
"Il blues c’è, ma è rivisto. Non è il blues di B.B. King o Clapton. Sto un po’ travisando il linguaggio del blues, nel senso che l’impatto è quello, io però cerco di metterci la mia personalità, di farlo un po’ più melodico e di diversificarlo da quello nero. Per esempio in "Dimmi cosa succede sulla Terra" c’è un pezzo, "Desert in my head", fatto con Noa, che è proprio l’espressione del blues come lo intendo io oggi. Un blues orientaleggiante e mediterraneo. Sulla copertina della raccolta c’è l’Africa per aggiungere forza al messaggio che io vorrei dare con la mia musica, perchè l’Africa secondo me (e non solo secondo me, è scientificamente provato) è la madre della musica, della cultura, del ritmo. Mi sento molto legato al Mediterraneo, alla musica greca, alla musica africana e a un approccio alla musica istintivo. Dall’Africa è nata la nostra creatività musicale odierna".
Come hai scelto i brani della raccolta?
"I brani sono stati scelti cercando di coprire tutti questi anni di carriera per farne una cronistoria a partire dai primi che ho scritto per arrivare a oggi. "Napule è" l’ho scritta a 19 anni, e "Amore senza fine" l’ho scritta quest’anno. Ho cercato di mettere insieme i pezzi di successo che ho scritto nei diversi momenti della mia vita, scegliendo con il cuore ma anche con la testa. E’ sensato fare conoscere anche alle generazioni che si sono avvicinate di recente alla mia musica, con "Che male c’è", anche certe canzoni che ho scritto negli anni ’70 e che fanno parte, spero, di un panorama della canzone napoletana".
Perché hai deciso di rifare le tue vecchie canzoni, quelle che nella raccolta sono riarrangiate?
"Ho rifatto totalmente undici pezzi. I brani degli ultimissimi dischi invece sono più vicini a come li farei oggi ed è normale che ne sia più soddisfatto, quindi li ho solo rimasterizzati. Ho usato l’orchestra in "Napule è" anche perché poi affrontando quel progetto strumentale ho imparato ad usare gli archi in maniera abbastanza nuova. Per certi pezzi vecchi dei quali non ero contento ho cercato di riprenderli dando loro una qualità che non avevano. "Quanno chiove" l’ho rifatta totalmente, e anche "Napule è". "Resta resta cu’mme" è un po’ più lenta... Cerco sempre di soddisfare le mie esigenze quando faccio il mio lavoro. Poi è chiaro che se sono contento io spero che lo siano anche gli altri. Volevo dare una qualità alla gente che compra una cosiddetta raccolta. Non c’è solo chi vuole avere i miei successi, c’è anche chi si compra una raccolta perché gli piace la musica. Oggi la musica sembra un fattore messo da parte: non si parla più di musica in tv perchè non fa audience, non fa fatturato. Invece si vede calcio da tutte le parti: tutta questione di fatturato... Ma io rimango convinto che la gente sceglie. Sarebbe importante concepire la musica come un fatto sociale e non solo come intrattenimento. "Andiamo a sentire un concerto così ci divertiamo"...Okay, ma per me la musica ha anche una funzione sociale, ti deve intrattenere ma ti deve far pensare, deve giungere a uno stato d’animo. Io penso che la gente oggi abbia una scelta e riesca ancora a farla. Sì, ci sono tantissimi messaggi, che ti assalgono da ogni parte, ma rimango convinto che la gente sappia scegliere".
Tutti dicono che la tv non è un buon veicolo per la musica. La radio lo è, secondo te?
"La ascolto molto, ma noto che c’è un rapporto molto commerciale con la musica, che comincia ad assomigliare a quello della tv. Stiamo vivendo tempi diversi da quando si diceva che la radio era un punto di incontro e di scambio. Oggi, quasi come la tv, la radio è un mezzo per la diffusione di prodotti, ed è difficile che venga messo un disco che non vende. Non voglio fare un discorso idealista, ma vorrei che venissero aiutati i giovani artisti che non hanno la possibilità di entrare in un certo giro. In mezzo a tanti dischi che vanno che vendono dovrebbero mettere anche cose nuove che aiutino la gente ad ascoltare musica diversa".
Il tuo linguaggio è in continua mutazione: dal dialetto all’italiano allo strumentale, ed è arrivato anche l’inglese.
"Sono tutti modi di esprimersi fondamentali. Il dialetto ha sempre un’immediatezza inimitabile anche per trasmettere certi valori. Siamo in Italia, non viviamo in America, non possiamo tagliare le radici che ci legano a questa terra. Ma è vero anche che l’inglese oggi è la lingua internazionale e diventa importante saper comunicare in inglese, e avvicinarsi a una cultura mitteleuropea è importantissimo. Per cui penso che oggi più che mai si debba essere consapevoli che il nostro ingresso in Europa non debba avvenire rinnegando la nostra cultura. Dobbiamo sempre tenerlo a mente; a volte ci si riesce, a volte no, perché siamo bombardati dalla cultura angloamericana. Non solo nella musica. Ma nella musica abbiamo una forte tradizione, e quindi dobbiamo difenderla. Artisti come Ramazzotti, Bocelli o Zucchero hanno un certo tipo di risultato che si basa sulla nostra italianità".
A proposito di Zucchero: ti ha querelato...
"A volte anche noi artisti italiani suscitiamo le ire degli artisti internazionali... Lasciamo stare..."
"Amore senza fine" è molto positiva e serena. Lo sei anche tu?
"Sono abbastanza sereno, anche se non sono più molto tollerante come una volta per quanto riguarda la musica e il lavoro. Voglio dire: sul piano personale sono tranquillo, ma sul lavoro tendo ad essere più agitato. Lavorare in una maniera professionale in questo paese è un po’ complicato. Fare delle cose di qualità nella musica in Italia significa combattere. Comunque sì, sono abbastanza sereno".
Trovi che ci siano problemi per la musica italiana?
"Riallacciandomi al discorso di prima, penso che ci sia una realtà musicale italiana che non è mai stata esportata ma che a mio avviso fa la cultura di questo paese. Sto parlando di artisti come De Andrè, Guccini, Fossati, De Gregori: i nostri poeti. Invece all’estero funziona il solito modo di vedere l’Italia, con la melodia sdolcinata o il ritorno a dei clichè come la musica classica, con lo stesso Pavarotti sulle orme di Caruso. Sì, ci rappresenta, fa parte della nostra cultura, ma c’è una realtà che si riconosce in cose più sperimentali che sono testimoniate da Jovanotti, Litfiba, Almamegretta".
A proposito degli Almamegretta, pensando alla vecchia scuola partenopea, come vedi questo "nuovo sound napoletano", di cui sono i maggiori esponenti con i 99 Posse?
"Secondo me hanno una grossa forza sperimentale, e rispecchiano veramente la creatività attuale della musica partenopea. Dal punto di vista musicale sono nati vicini all’Europa, molto vicini alla musica internazionale. Sono più avanti di quanto lo siamo stati noi negli anni ’70 e ’80, col nostro movimento di musica napoletana voluta, se vogliamo, anche da una forza politica di sinistra come all’epoca era il PCI, che aiutava la musica con i festival in cui riuscivamo a farci conoscere noi, Nuova Compagnia di Canto Popolare, Napoli Centrale, Toni Esposito, Musica Nova, Bennato. C’era un movimento abbastanza fertile, legato alla cultura partenopea; loro stabiliscono un ponte tra una cultura più ampia, mediterranea, e un sound più internazionale. Un loro merito è quello di essere venuti fuori in un momento difficile come quello di oggi, in cui mancano gli spazi".
Ultimamente sembra che ti riesca piuttosto facilmente di collaborare con altri artisti.
"Recentemente ho lavorato con Noa, Irene Grandi e Giorgia, e prima di loro con Randy Crawford e Sarah Jane Morris. Generalmente instauro dei rapporti di sintonia musicale. La musica è un momento di incontro. A me piace instaurare un rapporto con la musica. Sì, uno può parlare, ma a me piace comunicare con la musica".
Come è nata la collaborazione coi Simple Minds?
"Penso che loro siano stati insieme agli U2 il gruppo degli anni ’80 e ’90 più importante per la musica europea. Quando ho sentito che stavano realizzando un album chiamato Neapolis ho pensato che se loro si sono avvicinati a un certo tipo di cultura voleva dire che hanno certi interessi, e ho pensato che potessero essere in comune con i miei. Ho incontrato Jim e Charlie, e gli ho sottoposto la cosa, Gli è piaciuta, e ne sono contento: loro hanno cominciato a tracciare una nuova strada nel modo di fare canzoni o fare musica. Alcuni li definiscono rockettari, o un gruppo d’avanguardia: è un gruppo che ricerca molto sulla sonorità. A parte che Jim ha una voce straordinaria, sono un gruppo che crede ancora in certi valori sia per quanto riguarda i testi che per quanto riguarda il proprio impegno sociale. Vivono la musica un po’ come la vivo io. E’ stata una bella cosa fare questo pezzo insieme".
In conclusione: sei cambiato?
"Come tutti. E come tutti, non totalmente. Rimangono certe cose che fanno parte del mio carattere. In 23 anni di carriera, non è cambiato l’entusiasmo, e il rapporto con la musica. Anche se vedo che oggi la musica è vissuta in maniera diversa, con un approccio tecnologico, attraverso il mercato. Una volta studiavi lo strumento: prendevi la chitarra e provavi a fare i pezzi di Bach. Oggi bastano una tastiera e un computer, e hai una canzone. Ciò comporta alcuni vantaggi, ma io ho scoperto la semplicità, il piacere di sottrarre invece che complicare. Sono riuscito a comunicare con più persone levando elementi - mi spiego: uno può dire "Costruisco una casa con tante cose", ma a ben guardare ce ne sono certe che sono negative, e bisognerebbe levarle. Forse questo rapporto con la modernità deriva dal fatto che io vengo da una cultura a vocazione pessimistica...Se vogliamo sono un po’ sessantottino, e per cambiare ce ne vuole".