
Greil Marcus è uno dei più importanti critici musicali degli Stati Uniti, e si è conquistato la notorietà anche grazie alle numerose critiche piovute su alcuni suoi lavori: celebre la querelle su un libro che raccontava la storia del punk, talmente disprezzato da altri critici da spingerli a scrivere a loro volta un libro da porre in antagonismo a quello di Marcus. La sua ultima fatica, comunque, si intitola "La Repubblica invisibile" ed è dedicato al lavoro faqtto da Dylan e The Band in occasione delle registrazioni dei Basement Tapes (cfr. la recensione del libro su Rockol). Rockol l’ha incontrato per parlare di questo ma anche del ruolo della critica al giorno d’oggi.
Come vorresti essere presentato ai lettori di questa
intervista?
"Sono un critico. Cerco di fare un confronto tra la mia persona e quello che
altre persone hanno prodotto, che può essere un evento, un dipinto o una canzone. Tento
di creare una tensione che mi permetta di capire cosa ho di fronte, cosa rappresenta, se
dice cose importanti. E cerco di spiegare perché, onestamente, le ritengo importanti.
Questo è ciò che dovrebbe fare un critico".
Il tuo ultimo libro è un approfondito saggio narrativo che
mostra l’importanza di "The Basement Tapes" di Bob Dylan. Non credo di aver
mai visto un impegno del genere relativo a un solo disco.
"Prima di continuare devo precisare una cosa. Quando parlo dei Basement Tapes
io non mi riferisco al disco ufficiale, ma all’insieme complessivo della musica
registrata in quelle sessions, che compare in gran parte sui bootlegs. Il disco ne è solo
una parte, importante ma incompleta di quello che hanno fatto".
Cosa hanno fatto?
"Non credo che si possa dire che Bob Dylan e la Band si siano riuniti in uno
scantinato e abbiano detto: "Mettiamo le mani nella tradizione folk americana
cercando di riscriverla". Dylan e i componenti della Band hanno trascorso insieme un
periodo di sei mesi durante i quali si sono isolati da quanto veniva da fuori, isolandosi
anche da una guerra proprio in quel periodo scuoteva le coscienze dell’America. La
reazione di Dylan fu quella di chi dice: "In questo momento c’è troppo rumore
nel mondo. E’ giunto il momento di riflettere, di parlare con calma. Perché forse
l’interrogativo realmente interessante non è chiedersi cosa sta succedendo adesso.
Ma casomai, cosa è successo tanti anni fa, e perché questo ancora ci tocca, sopravvive
dentro di noi". Questa è la mia interpretazione del sentimento che attraversa le
registrazioni dei Basement Tapes e che noi possiamo ascoltare oggi. A quelle domande è
stata data una risposta musicale".
Ma nella formazione artistica di Dylan, e nella musica di
quel periodo, la tradizione aveva già giocato un ruolo molto importante. In tal caso,
quei nastri devono essere considerati l’ultimo mattone che completa una costruzione
oppure una pietra miliare?
"Mi piace questa immagine, che si rifà a mattoni, pietre, rocce. Proprio in
quel periodo le copertine di molti importanti dischi inglesi degli anni ’60
raffigurano delle pietre..."
"Who’s next"? (N.d.R. disco degli Who)
"Già, è vero. Ma a dire la verità stavo pensando a vecchie pietre del
neolitico, quelle pietre immobili da 6000 anni che sembrano in grado di parlare ma non lo
fanno: mantengono il loro segreto, e da questo ha origine il loro potere. Ecco, isolate, a
se stanti, ma in grado di comunicare segretamente con la terra, di conoscere le
cose".
Non pensi che in ogni caso per le nuove generazioni sia meno
immediato comprendere The Basement Tapes a distanza di anni, e in un contesto musicalmente
così mutato e frenetico come quello attuale?
"Quando qualcuno tenta di tradurre emozioni in musica, sta già compiendo
un’operazione che può riuscire o meno. Puoi considerarla riuscita quando raggiungi
un risultato che non può far dire: "Questo è datato". Quando ascolti qualcosa
di vero, è irrilevante domandarsi a quando risale, e se ha attinenza con quello che
superficialmente sembra circondarti: sai che ha un legame con quello che è lo strato più
profondo di quanto ti circonda. Per fare un esempio, credo che nessuno possa dire,
sentendo cantare Billie Holiday, "questa canzone è vecchia". La verità di una
sua canzone è in grado di farti saltare quella serie di considerazioni legate ad altre
circostanze, come il periodo o il personaggio".
Ma "La repubblica invisibile" è molto dettagliato
sulle sessions, sulle storie dei personaggi raccontati da Dylan e sulla tradizione blues,
folk e hillibilly di cui i Basement Tapes sono intrisi.
"Ecco, questo mi serve a spiegare cosa intendo per "critica".
Bisogna distinguere quello che è il racconto della canzone, cui cerco di essere molto
attento, dai dettagli che secondo me sono irrilevanti: quello che voglio dire è che a me
non interessa sapere se quella canzone suona in un determinato modo perché la chitarra
aveva una corda rotta. Mi interessa solo quello che mi giunge. O, per fare un altro
esempio, non mi interessa se Dylan canta "This wheel’s on fire" con una
nota di rabbia perché quel pomeriggio aveva litigato con sua moglie. Non mi interessa
quello che forse voleva dire. Mi interessa quello che ha detto. Persino sapere
l’anno in cui quelle canzoni vennero registrate è di importanza relativa".
Ma realisticamente, possiamo avere questo approccio? Ci sono
talmente tante cose che attraversano la musica, che ne sono parte "industriale"
- anche per quanto riguarda la carriera di Dylan - che cogliere i momenti di autentica
ispirazione è difficilissimo.
"Quello che voglio dire tiene conto proprio di questo. I Basement Tapes, per
caso o per necessità, sono sfuggiti, evasi da queste catene. Non sono legati alla musica
di un periodo, cioè gli anni ’60, né alla musica incisa da Bob Dylan in
qualsiasi altro disco. E’ sfuggita. Ha una vita propria. In quelle sessions si
era sviluppato un potenziale in grado di evocare dei mondi, che potevano prendere la forma
di "Hills of Mexico" o "Apple Suckling Tree", o anche nella più
improvvisata canzone eseguita in modo distratto".
Potresti fare un esempio di altre incisioni che hanno lo
stesso potere?
"Uhm, non è semplice. C’è un disco dei Fairport Convention del 1968,
"What we did in our holidays". Per quanto riguarda dischi più recenti,
c’è "New Crime-Jazz", una raccolta di musica trip-hop con pezzi dei
Portishead e bands di quel genere. Ha un’atmosfera davvero inquietante, ricorda certe
colonne sonore dei film noir francesi".
Tipo "Ascensore per l’inferno"?
"E’ esattamente il film che avevo in mente: la colonna sonora di quel
film è in grado di portarti in un altro mondo. Mi meraviglia che tu lo conosca, alla tua
età: è addirittura precedente alla nouvelle vague. Quella raccolta di cui parlavo ha
un’altra caratteristica importante: non è stata composta riunendo i musicisti e
chiedendo loro dei brani. E’ stato un critico a selezionarla, un ascoltatore che ha
detto: questi pezzi devono essere messi uno dopo l’altro, devono stare insieme. Un
buon critico".
E dischi "live" con lo stesso potenziale?
"In un live album in genere c’è un problema, il pubblico. Gente che
applaude e approva, e influenza il musicista, la registrazione e l’ascoltatore. Una
delle cose che caratterizzano i Basement Tapes è il fatto che non c’è pubblico.
Nessuno suonava pensando che qualcuno lo avrebbe ascoltato, nessuno doveva sentire quella
musica. E’ musica segreta. Musica che fa rivivere vecchi cantanti. Sono loro il
pubblico immaginario. Intanto che parlavo, mi è venuto in mente un disco,
"Oar", registrato in seguito a un esaurimento nervoso del leader dei Moby Grape,
che se ne andò a Nashville e prese ispirazione per comporre musiche strane e distanti, e
grandi quanto la musica dei Basement Tapes".
Sembra che si debba essere in una sorta di stato di grazia,
per produrre risultati del genere...
"Ci sono teorie sciamaniche sulla musica che potrebbero sottoscrivere questa
idea. Di fatto, quando ci si siede a un tavolo con l’intento di scrivere capolavori,
anche capolavori commerciali con il groove più adatto o un "hook" cui il
pubblico non possa resistere, non si riesce mai nell’intento. Chi ascolta con un
minimo di attenzione, riesce a riconoscere la natura artificiale dell’operazione.
Anche se poi è libero di comprare il disco perché è piacevole, gli ricorda qualcosa, o
altri motivi. La musica, più di altre forme d’arte, permette di perdersi in un puro
momento creativo. Gli attori ad esempio possono manifestare una grande intensità, ma di
fatto la loro parte è scritta, richiede un ragionamento. Nella musica sei sempre in grado
di andare oltre le aspettative. Ma non puoi decidere di farlo. Ecco, questa è una
buona definizione della musica".
C’è qualche nome che attualmente suscita il tuo
interesse?
"Beh, sicuramente più di uno. Ho appena finito un articolo su due bands.
E’ una sorta di confronto tra Thalia Zedek dei Come, che è nella musica da molti
anni ma sembra che solo ora stia trovando se stessa, e Elizabeth Elmore dei Surge che sta
cominciando adesso. Ecco, è un esempio di come la verità della musica trascenda le
storie personali".
C’è qualcuno su cui invece ti sei sbagliato?
"Forse lo rimuovo... C’è una persona che non sta avendo il successo che
io immaginavo, ed è Corinne Tucker, che attualmente suona coi Sleater-Kinney. Ha fatto e
continua a fare alcune delle cose più belle che io abbia mai sentito".
Cosa pensi che abbia perso e acquistato la musica rock in
questi anni?
"Il rock ha perso le connotazioni di immediatezza che derivavano dalle prime
semplici registrazioni di suoni, dai minori filtri tra l’idea, l’intuizione, e
l’ascolto. Oggi la tecnica, sia nell’incisione, che nella preparazione musicale
degli strumentisti, che nella costruzione degli strumenti, è troppo presente. In compenso
la gente riesce ancora a farsi sentire, c’è ancora tanta gente che ha voglia di fare
musica per l’eccitazione di farlo, per l’importanza di farlo. E perché sa che
è più facile e immediato farsi sentire con una canzone che non con un libro. Peraltro,
penso che ci siano ancora misteri, nella musica pop. Ci sono ancora cose affascinanti.
Sono molto ottimista, perché sento ancora cose molto belle nella musica".