Se avete trent’anni almeno potreste ricordarvela per via del suo successo con il duo elettronico degli Yazoo, all’inizio degli anni Ottanta. Erano lei e Vince Clarke (proprio quello dei primi Depeche Mode), in coppia, impegnati a conquistare il mondo con hit del calibro di “Only you” (1982) e album come “Upstairs at Eric’s” (uscito la stessa estate) o “You and me both”, che nell’83 entrò in classifica direttamente al numero 1. Subito dopo Alison cominciò la carriera solista, e anche così, per alcuni anni, restò in vetta alle charts. I problemi arrivarono negli anni Novanta, in cui un contratto-capestro con la Sony le impediva di scrivere le canzoni che voleva. Finalmente libera (e passata alla Edel), Alison ha appena pubblicato il disco che sognava da tempo: e che ha intitolato “Hometime” (“tempo di casa”), che suona materno, caldo, rassicurante, intenso. Proprio come lei.
Finalmente libera…
Sembrava che questa tortura non finisse mai. Quelli della Sony mi hanno tenuto letteralmente inchiodata, per anni. Mi dicevano che avrei dovuto tornare al sound degli Yazoo per venire pubblicata. Che avevano “le persone adatte a scrivere canzoni per me”.
Ma lei non voleva saperne.
La tentazione è stata forte, lo ammetto. Io amo la musica, la amo davvero, ed essere costretta al silenzio per anni è stata una vera tortura. Hanno scritto che ho cantato con Tricky, James Brown, i Lighting Seeds: sarà successo mezza volta, dieci anni fa.
Da quanto prepara “Hometime”?
Dal 1994, cioè dall’uscita del mio ultimo album, “Essex”. Otto anni senza poter pubblicare una nota. La cosa che mi ha fatto andare avanti è stata la mia fiducia nelle canzoni. Molto più alta della fiducia nella gente.
Nel frattempo ha recitato in un musical, “Chicago”, al fianco di Denise Van Outen
Non l’avevo mai fatto ed è stata un’esperienza fantastica. La vita per me è sempre stata strana. Quand’ero all’apice del successo ero abituata a girare con la scorta e un entourage che non mi lasciava andare da sola neanche in bagno. Poi, l’oblio: quando ho smesso di fare dischi mi sono dedicata alla famiglia, ai miei figli. Sono scomparsa al mondo come “Alison” e sono diventata una semplice “mamma”. Ecco, il musical è stata un’ottima occasione per cambiare le mie prospettive.
In che senso?
Per entrare in relazione normalmentecon altri adulti miei coetanei. Quando recitavo dovevo presentarmi sul set al mattino, parlare con gli altri, magari uscire anche la sera in gruppo, per festeggiare o semplicemente per chiacchierare. Avevo dimenticato che esistessero cose “normali” come questa. La musica fino a quel momento era stata tutta la mia vita, e negli anni di vuoto creativo io ho sentito di non esistere più. Ero arrivata a gesti estremi, assurdi.
Come per esempio?
Non uscivo più di casa. Comunicavo con il mondo solo attraverso Internet. Se qualcuno per caso suonava alla porta mi chiudevo per due o tre ore in uno sgabuzzino. Capivo che i miei figli facevano una vita infame. Ero disperata.
Poi è arrivata la bella sorpresa di “Chicago”, e poi finalmente il disco.
Pensi che quando è uscito ero convinta che nessuno lo volesse ascoltare. Infatti non era prevista una gran promozione, anzi, diciamo che non era previsto quasi nulla. Poi i giornalisti l’hanno ascoltato, e hanno cominciato a scrivere.
E che cosa hanno scritto?
Che ero rinata, che “Hometime” è la miglior cosa che abbia mai fatto. Da sempre i giornalisti condizionano la mia vita. Questa è la prima volta in cui davvero li ringrazio.
Cosa è cambiato nella musica dagli anni Ottanta ad oggi?
Non è che ne abbia mai avuto una grande idea. Anche vent’anni fa mi sentivo fuori dal giro, figuriamoci oggi. Ma ho la sensazione che vent’anni fa si suonasse per se stessi, oggi per l’immagine. Io, grossa come sono, non credo che potrei esordire con un disco oggi. Me lo lasciano fare solo perché sono Alison Moyet.
Ma da dove prende gli stimoli per scrivere la sua musica, se dice di “non avere idea” di quello che succede attorno a lei?
Mi capita di assorbire quello che c’è fuori anche attraverso canali diversi da quelli musicali. E’ sempre stato così. Non ho studiato tanto, ho sempre trovato la musica una cosa facile, che stava dentro di me. Ne ho sempre compreso il senso profondo. Non sto dicendo di essere un genio, anzi. Ma è un po’ quello che capita agli autistici: ci sono lati del mondo e della vita con cui queste persone entrano in comunicazione diretta. Senza filtri. A me con la musica capita qualcosa di simile.
Cosa di Alison c’è in “Hometime”, dunque?
La mia vita, la mia carriera, il mio dolore. Bisogna stare sempre attenti quando si parla di dolore: in fondo non è che i miei figli stiano morendo di fame. Non sono al capezzale di mia madre. Sono piccoli dolori umanissimi, normali. Dolori qualunque. Non ho mai avuto grandi ambizioni e forse per questo non ho avuto neanche grandi dolori.
E grandi felicità?
Sono contenta che mi abbiano lasciato pubblicare “Hometime”, questo sì. Felice di avere tre figli che mi fanno faticare e sognare. Felice di poter cantare in francese perché mio padre lo era, felice di andare in tour, felice di poter rispondere a tutte le email che mi mandano i fan. Sono grandi felicità, queste? Non ne sono sicura. Ma a volte mi sembra di sì.
(Paola Maraone)